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Ammazzato Ali Iman Sharmarke, un amico che credeva nel giornalismo
(di
Massimo A. Alberizzi)


12/08/07


 

Se non ci fosse stato lui forse ora non potrei scrivere questa nota. E’
stato proprio Ali Iman Sharmarke – saltato sabato su una mina telecomandata
a Mogadiscio - che il 2 dicembre dell’anno scorso ha esercitato un’enorme
pressione sui fondamentalisti somali convincendoli a lasciarmi andare dopo
che ero stato arrestato all’aeroporto di Mogadiscio.

Quando i servizi di sicurezza delle Corti Islamiche mi hanno prelevato e
invitato a seguirli, venivo proprio da casa di Ali. Tra l’altro avevamo
parlato di come sia difficile e rischioso fare il giornalista in una
situazione di guerra - dove qualunque cosa tu dica da fastidio a qualcuno
che ti può rispondere a raffiche di mitra - e della sua sicurezza. Lui era
un laico e in quel momento i fanatici avevano stretto le maglie della
repressione religiosa. “Non mi toccheranno – aveva detto – sono protetto a
sufficienza”. Contava molto sul fatto che i grandi capi delle corti, e
soprattutto la spina dorsale del loro apparato militare, fanno parte della
cabila aer, un sottoclan del grande gruppo haberghidir. E infatti fu proprio
grazie ai suoi forti legami aer che riuscì a convincere il gran capo
dell’islamismo somalo, lo sceicco Hassan Daher Awies a prendermi sotto la
sua protezione e impedire agli oltranzisti di procedere alla mia esecuzione.

Ali Iman era comunque una della poche teste indipendenti della Somalia.
Aveva passaporto canadese, ma  nove anni fa era tornato in patria per
organizzare la prima radiotelevisione libera del Paese: Horn Afrik. Credeva
nella funzione del giornalismo: "La gente deve essere informata di quello
che succede - mi aveva dotto quando l'avevo incontrato la prima volta -
altrimenti in questo Paese non ci sarà mai pace. Libertà e democrazia
passano attraverso il giornalismo". Criticava il governo di transizione, il
che, oltre a diversi giorni di chiusura delle trasmissioni, gli era costato
un paio di colpi di mortaio nella grande villa sede dell’emittente.

Ma criticava anche il fondamentalismo “estraneo – diceva masticando il
vietatissimo chat, le foglie di eccitante messe al bando dalle Corti - ai
costumi e alle tradizioni della Somalia”.

Le sue analisi politiche sull’ingarbugliata e inestricabile situazione
somala illuminavano sugli eventi, sulle ambizioni personali, sugli
obbiettivi dei clan, sugli interessi esterni. Insomma una visita nel suo
ufficio era la prima cosa che facevo appena atterrato a Mogadiscio. Dalla
conversazione con Ali capivo subito chi dovevo intervistare, dove dovevo
andare per trovare qualche buona notizia e come dovevo muovermi.

Avrebbe potuto essere scelto come presidente laico e democratico della
Somalia: da un lato sarebbe stato capace di tenere in qualche modo sotto
controllo gli aer - accontentandoli nelle loro ragionevoli richieste di
avere un maggior peso nella gestione del potere e garantendoli davanti alle
altre cabile – dall’altro chiedendo in cambio di calmare le aspirazioni
religiose dei fondamentalisti islamici che agli aer sono legati.

Chi l’abbia ucciso forse non si saprà mai. Ma se non si conosce il nome né
il mandante, se ne intuisce chiarissimamente la ragione: sabotare qualunque
processo di pace.

Massimo A. Alberizzi



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