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Ci ha lasciato Fabio Mantica, un geniale cronista
(di Massimo A. Alberizzi)

17/07/07

Ho conosciuto e lavorato assieme a Fabio Mantica quando ero in cronaca.
Era una persona di grande sensibilità, un po’ chiuso ma un geniale
professionista.
Aveva idee di destra ma la sua sensibilità giornalistica e il suo fiuto per
le notizie
erano al di sopra delle sue convinzioni politiche.

Era soprattutto un grande titolista e con i suoi titoli riusciva a
convincerti a
Leggere storie che altrimenti avresti saltato a piè pari.

La nera era la sua passione. Durante i fatti del 1977 un fotografo, Dino
Fracchia,
venne da me con la foto famosissima dell’autonomo ripreso mentre spara in
via
Carducci. Corsi immediatamente dal capocronista di allora, Salvatore
Conoscente,
che mi snobbò. Dissi a Fracchia che al Corriere la foto non interessava. Il
giorno
dopo Fabio tornò dalla corta e mi fece cercare dappertutto (allora non
esistevano
i cellulari), chiedendomi di rincorrere il fotografo per comprare
quell’immagine
davvero unica. Arrivai tardi, se l’era accaparrata l’Espresso.

L’episodio fu utilizzato – mio malgrado – dall’azienda per allontanare
capocronista
e vice capocronista. Fabio restò numero tre della Cronaca per qualche anno,
poi fu
spostato anche lui e piazzato agli spettacoli, cosa che non gli interessava
granché.
Nobilitò comunque anche quel settore con i suoi titoli assolutamente
ammiccanti.

La cronaca del Corriere perse così uno dei suoi più geniali protagonisti,
l’uomo che nell’ombra e dietro le quinte gli aveva dato una grande regia, al
di là dei pochi pezzi scritti da lui che si trovano nei moderni archivi
elettronici.

Massimo A. Alberizzi

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E il fioraio disse: quel bandito sparava ridendo
MORTE DI CAVALLERO, AMARCORD DI UN CRONISTA

Trent'anni fa, il 25 settembre 1967, la banda Cavallero rapinò il Banco di
Napoli
di largo Zandonai. Pietro Cavallero per sfuggire alla cattura sparò
all'impazzata
con i suoi complici, uccidendo tre passanti e ferendone 22. Un cronista del
Corriere
racconta come scoprì la pista che portò all'arresto del bandito, morto
martedì a
Torino all'età di 68 anni.
di: Fabio Mantica

La Milano Anni Sessanta era una città allegra. Dimenticata da tempo la cupa
criminalità
del dopoguerra, e prima dei venti della contestazione regnava uno
spensierato disordine
pubblico che si consumava ballando nei mille locali delle lunghe notti
bianche.

Il tuo compagno di shake poteva essere il bandito che aveva lasciato a casa
la sua pistola
di terza mano e si mischiava ai ragazzi di buona o cattiva famiglia, ai
commendatori, ai
vagabondi uniti in festanti tribù. Si rapinava, si sparava, certo, anche la
mafia faceva
capolino ma, fatta eccezione per qualche disgraziato cassiere, era difficile
trovarsi a tu
per tu con una calibro 9.

Quello fu il giorno in cui Milano scoprì che la morte correva per strada,
ridendo. E perse
di colpo la sua allegria. La segnalazione che quel mattino arrivò in cronaca
sembrava
seccatura di ordinaria amministrazione: assalto in banca. Ma, andando senza
troppo
entusiasmo sul posto, il cronista vide la routine spezzarsi brutalmente.
Swingin' Milano
era impazzita, la musica era passata alle armi.

Il cronista non arrivò mai alla banca assaltata. Tra spari, ululati di
sirene, stridere di gomme, urla, tutto il Sempione era un girone infernale.
Si respirava cordite. Le auto si tamponavano, la gente correva senza sapere
dove e perchè, donne piangevano per puro terrore, i tram si fermavano, i
manovratori sul predellino, i passeggeri ai finestrini a scrutare lividi nel
caos. E il sangue. Una scia che partiva con un morto, proseguiva con un
ferito, poi un altro morto, poi un alto ferito, e sembrava non avesse mai
fine. Ma che cos'era successo?

Ci vollero ore per mettere insieme i pezzi. Ma i banditi chi erano? O
almeno, com'erano?
Fu un fiorista a dare la traccia. Il cronista lo incontrò che aveva ancora
in mano un mazzo
di rose: sulla soglia del negozio, lo aveva preso dalla vetrina per darlo a
una cliente,
scappata al primo sparo. Il fiorista aveva visto chi sparava: un uomo dal
finestrino di
un'auto in corsa. Un uomo che rideva. Altri, poi, confermarono. Tra i
banditi c'era uno che
uccideva ridendo. Non era una volontaria, satanica risata, si scoprì alla
fine. Cavallero
aveva stampato sul volto un ghigno naturale, una sua peculiare
conformazione. E quel suo
mostrare i denti lo tradì. Si spera che non l'avesse accentuato per
allegria.

Corriere della sera - 18 gennaio 2000
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È morto Arnaldo Giuliani, un maestro di giornalismo

Aveva 69 anni, era stato capocronista del «Corriere della Sera» e direttore
del
«Corriere Adriatico»
di: Fabio Mantica

Con quel viso (e quel cuore) da bambino, sembrava non dovesse invecchiare
mai. Infatti
non è stata l' età a sconfiggerlo, ma una delle crudeli trappole della
morte.

Quando, agli albori degli anni Sessanta, misi piede nella cronaca di via
Solferino, retta
dal temibile Lanfranchi affiancato dal duro Di Bella, fu il primo volto
giovane che vidi,
fra tanti redattori con le rughe e troppo affaccendati per badare a quel
ragazzino
alieno che arrivava come cronista praticante. E fu suo il primo sorriso.
Come il primo
incoraggiamento, il primo consiglio, il primo aiuto.

Perché Giuliani agli altri si interessava, ai loro problemi partecipava, dei
loro patimenti
soffriva. Singolare qualità per uno dei più grandi cronisti dagli anni
Cinquanta a ieri. In
un mondo fatto di inganni e feroci battaglie per uno «scoop». Con anima
candida era il
«re» della cronaca nera. Non era ingenuità, ma vera bontà. Era innocente
nelle sue
Battute pungenti, ma duro nel suo lavoro e intransigente con se stesso.

Un giorno si stancò di sentirsi appellare «dottore» dai commessi: li radunò
e comunicò
A tutti che lui non era dottore, ma conte. Lo presero sul serio e così
d'allora in poi lo
chiamarono. Non era neppure conte, ma gentiluomo sì, senza compromessi.

Uno dei segreti, in effetti, del suo successo. Gentiluomo nel mondo dei
ladri che per
professione doveva frequentare? Eppure, proprio questo lo compensava, sia al
di qua sia
al di là della legge. Perché dava la massima fiducia. Si era fatta amica
l'intera questura.
Agenti e funzionari si confidavano con lui; gli raccontavano le loro pene
familiari e tutti i
«top secret» delle loro indagini. A volte lo facevano addirittura assistere
agli
interrogatori.

Gli sarebbero stati facili i colpi giornalistici, le rivelazioni
sensazionali, ma lui non tradì
mai alcuna confidenza. Per natura, non per calcolo. Parte di quelle
informazioni, sì, le
usava, ma quelle che non avrebbero per nulla danneggiato un'investigazione.

Non ribaltava la verità, la mascherava dietro quella sua scrittura ampia,
immaginifica, al
limite del barocco, indirizzando nel senso giusto il lettore. La stessa
fiducia gliela dava la
faccia nascosta della luna, la malavita. Anche qui conosceva tutti, molti
personalmente. Non
gli raccontavano i piani delle rapine, ma i loro fatti sì e, a volte, anche
i particolari di
passate scorrerie che nessun poliziotto aveva scoperto.

Tra i suoi «cavalli di battaglia» c'erano le indagini sulla rapina di via
Osoppo. Uno dei
suoi ideatori gli mandò per anni, a Natale, un biglietto illustrato con
stelline e abeti
esprimendogli «i più deferenti auguri».

Una notte lo incontrai alla tavernetta di piazza Piola. Il capo di uno dei
più pericolosi
clan emergenti piangeva sulla spalla di Giuliani: gli esternava il suo
dolore perché la
fidanzata lo aveva tradito, con un poliziotto.

Così l' uomo, così il cronista. Buon riposo, signor conte.
Fabio Mantica



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