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SERGIO LEPRI/"Giornalismo. Da ieri al futuro"



29/04/08

Il 23 aprile a Roma si sono svolte

le celebrazioni per il centenario

della Federazione Nazionale della

Stampa.

Sergio Lepri, che è stato direttore

dell'Ansa per 28 anni, ha tenuto

quest'intervento fuori da ogni retorica

e con intento certamente non solo

commemorativo. I titolini che lo

spezzano sono di Senza Bavaglio.

sb

L'occasione che qui ci trova riuniti, la celebrazione del

Centenario della Federazione della stampa, meriterebbe

davvero, come è scritto nel programma, una bella "lectio

magistralis". Ma io non terrò una "lectio magistralis". Il

mio sarà solo un invito a condividere alcune riflessioni

maturate in tanti anni di esperienza professionale.

Tanti anni. Una vita. Una storia personale che comincia

Proprio nello stesso anno, il 1944, in cui, dopo la parentesi

fascista, riprese vita il nostro sindacato, la Fnsi.

1944 e poi 1945. Anni duri, in un Paese distrutto nelle case,

nei beni, nelle persone; lacerato nei cuori e nelle menti.

Anni duri, ma anche belli, perché pieni di progetti e di

attese.

La gente vedeva nella stampa, finalmente libera, il segno

concreto della democrazia. Voleva sapere quanti etti di

farina o quanti decilitri di olio la carta annonaria del

razionamento avrebbe concesso in settimana; quando

sarebbe tornata l'acqua, la luce, il gas, il tram e il treno;

ma voleva anche conoscere i programmi proposti dai nuovi

partiti politici, fino allora ignoti; e voleva conoscere le

ideologie di cui solo i vecchi sapevano parlare.

Socialismo, liberalismo, comunismo creavano un

immaginario, carico di meravigliose palingenesi.

GIORNALISMO COME SERVIZIO

Nelle redazioni dei giornali c'era una maggioranza di

giovani. Molti provenivano dalla stampa clandestina, la

maggior parte aveva dietro di sé qualche anno di

insegnamento, tutti vedevano nel giornalismo un modo

per contribuire più validamente al processo di

ricostruzione del Paese; un mezzo per consolidare gli

istituti democratici appena riconquistati e per

garantire il pluralismo in cui si esprimeva il neonato

sistema politico. Il giornalismo come servizio; il

giornalismo come passione civile.

CHI PIU' SA, PIU' E' LIBERO

Prima riflessione, piuttosto ovvia, oggi; ma, allora,

conquistata sul campo. Il giornalismo è uno strumento

per dare ai cittadini le informazioni che li aiutino a

governare meglio la propria giornata e a migliorare la

qualità della vita e, insieme, per dare ai cittadini le

informazioni che li aiutino ad allargare il proprio

patrimonio di conoscenze. Chi più sa, più è libero.

Furono ancora anni duri - gli ultimi anni Quaranta e i

Primi anni Cinquanta - ma importanti, anche perché la

reazione alla retorica del linguaggio del giornalismo

fascista, la necessità di dire cose concrete a lettori

che volevano sapere cose concrete, la scarsità dello

spazio (per mancanza di carta i giornali uscivano per

parecchio tempo in due pagine, un foglio), ci

inducevano a usare un linguaggio semplice, sobrio,

sintetico; ci aiutarono quindi a superare il mito cha

da sempre pesava sul giornalismo: il mito della

letteratura, cioè il giornalismo come una professione

che attiene alla letteratura; il giornalismo come

genere letterario.

Era una convinzione che nasceva da una secolare

tradizione, che nel passato ha trasformato in un

privilegio della professione giornalistica quello che è

stato invece un pesante impedimento a un modo

moderno di fare informazione.

GIORNALISMO, NON LETTERATURA

Il gusto, oltre il giusto, per una prosa elegante e per

un linguaggio ricercato, lontano quanto più possibile

dalla lingua parlata. E questo significava non rendersi

conto del grado di istruzione (due terzi degli italiani

avevano la licenza elementare come massimo titolo di

studio) e del livello culturale di un paese che fino a

qualche decennio fa (in piccola parte lo è ancora) era

un Paese bilingue, dove, accanto al dialetto, l'italiano

era la seconda lingua.

E questo spiega la scarsa lettura dei giornali (l'Italia

sempre agli ultimi posti in Europa) e quindi la scarsa

informazione.

Letteratura, no. Allora che cosa? Il giornalismo (il

giornalismo serio, esatto, veritiero) racconta i fatti

con la freschezza dell'immediato; racconta ciò che

è accaduto ieri.

La storiografia - è ovvio - arriva dopo; e gli eventi

passati, ricostruiti dallo storico, non sono più eventi

passati ma diventano eventi contemporanei (la storia

è sempre storia contemporanea; lo diceva il mio

maestro Benedetto Croce ed ora è una verità

acquisita) e i fatti del passato, diventati

contemporanei, perdono la loro storicità, il loro

essere storia di allora, cioè quegli aspetti di umanità

e quotidianità che ne sono spesso la pregnante

caratteristica.

Gli annalisti francesi, la cui rivoluzione storiografica

si cominciava allora a conoscere, ci davano un

autorevole conforto.

La storia - dicevano Braudel e Le Goff e gli altri – non

è soltanto la storia dei grandi eventi, ma la storia di

ogni giorno e la storia di tutti, grandi e piccoli, ricchi e

poveri, potenti e deboli, superbi e umili; e per scrivere di

storia non bastano più gli archivi e i documenti ufficiali,

servono anche le curve dei canoni d'affitto, gli indici

Dow-Jones, il numero dei morti per droga, i dati della

produzione agricola, le condizioni del clima. Insomma le

pagine dei giornali e, oggi, i loro archivi elettronici.

CAPIRE LA REALTA' SENZA MANIPOLARLA

Riflessione numero due: il giornalismo può avere una sua

dignità anche nella comunità delle lettere, se,

abbandonata la seduzione della letteratura, si fa

storiografia o complemento di storiografia. Il

giornalismo non come "conoscenza dell'effimero", ma

come "scienza del contingente", come "scienza della

quotidianità". La "storiografia dell'istante" ha detto,

un po' poeticamente, Umberto Eco.

A una condizione, però: che il giornalismo cerchi di

capire la realtà e la spieghi onestamente così com'è,

senza applicare alla realtà i propri schemi ideologici

e senza manipolarla per fini diversi, extragiornalistici,

politici o economici, o anche di personale vanità. Un

giornalismo che informi; non un giornalismo che

cerchi di persuadere o che cerchi soltanto di piacere.

Nel 1954 arriva la televisione, e dopo qualche anno è già

una rivoluzione. Il nuovo medium trasmette messaggi

nuovi, ma è esso stesso un messaggio. Modifica i nostri

comportamenti, le nostre abitudini e anche i nostri modi

di pensare.

LA TV E LA CASALINGA DI VOGHERA

La televisione irrompe nel giornalismo: nel bene, nel

meno bene, anche nel male.

Bene, nel costringere il giornalismo a passare da un

pubblico che, con la carta stampata, appartiene soltanto

ad alcune fasce socioculturali del paese, a un pubblico

che coincide con l'intera società; compresi quelli che

non leggono i giornali, compresi gli analfabeti effettivi

(pochi) e gli analfabeti di ritorno (tanti); compresa la

"casalinga di Voghera", che, secondo una vecchia famosa

inchiesta della Rai degli anni Sessanta, non sapeva il

significato di "scrutinio", di "disegno di legge", di "crisi

di governo", di "potere esecutivo".

La "casalinga di Voghera" non era un'invenzione o

un'astrazione, ma una persona vera, interpellata, insieme

agli agricoltori di Andria e agli operai di Sesto San

Giovanni, dal Servizio Opinioni della Rai, ai tempi in cui

la Rai si preoccupava di conoscere i telespettatori, e

non soltanto i pubblicitari; i consumatori, e non soltanto

i produttori di consumi.

Anche la casalinga di Voghera aveva il diritto di essere

informata con un linguaggio comprensibile; e il giornalista

aveva il dovere di informare, con un linguaggio

comprensibile, anche la casalinga di Voghera.

Bene, dunque, per il linguaggio. Il linguaggio della gente

Comune per farsi capire anche dalla gente comune. Meno

bene, la tv, per la scelta dei contenuti e per il modo di

presentarli.

GIORNALISMO NON INTRATTENIMENTO

La televisione è immagine, e l'immagine è spettacolo; lo

spettacolo comporta un palcoscenico e una platea;

comporta quindi un pubblico di cui si deve cercare e

ottenere il consenso, dandogli una realtà-spettacolo.

Ma la spettacolarizzazione della realtà conduce

fatalmente all'adozione, anche nell'informazione, dei

sistemi della pubblicità.

Più che strumento di conoscenza, l'informazione

televisiva tende spesso ad essere oggetto di

intrattenimento, privilegiando i contenuti che non si

rivolgono alla ragione ma ai sentimenti, che non

suggeriscono riflessioni ma suscitano emozioni.

Gli alti costi di produzione e la ricerca del profitto

hanno così inventato l'Auditel e la schiavitù

dell'audience; e, insieme alla concorrenza fra i vari

organi di informazione televisiva, la ricerca del profitto

e la schiavitù dell'audience hanno portato a

un'informazione televisiva che troppo spesso indulge a

drammatizzare e a spettacolizzare i fatti, a volte

adeguandosi ai cattivi gusti di minoranze.

Gli interessi veri della maggior parte dei telespettatori,

sono quelli accertati da una famosa ricerca del Censis:

prima la salute, poi - bellissimo - la scuola e la cultura,

poi il lavoro, poi il vitto e l'abbigliamento, poi il risparmio

e i servizi sociali, poi i problemi della città e del quartiere.

La politica viene al decimo posto; ma è la politica che

i teleschermi ci fanno vedere: non la politica come

progetto, come risposta ai problemi della vita, ma la

politica come rissa, come frasi fatte, come retorica,

come affabulazione.

Quanto dell'antipolitica nasce dalla politica come tale e

quanto dell'antipolitica nasce invece dal modo in cui

la politica è promossa, direi inventata dalla

televisione-spettacolo?

E' un cerchio perverso: la tv dice all'uomo politico: io ti

faccio vedere; e l'uomo politico è pronto a farsi vedere.

La tv dice: io però voglio spettacolo; e l'uomo politico fa

spettacolo. La tv è tutta un quiz, diceva Arbore. La tv è

tutta uno show; spesso anche quella che fa informazione.

SERVIZIO PUBBLICO “DI SERVIZIO”

Riflessione numero tre. L'informazione televisiva, almeno

quella del Servizio pubblico, deve tener conto degli

effettivi bisogni informativi dei cittadini; deve essere

una informazione "di servizio".

Non spaventi la parola: informazione "di servizio"

significa soltanto un'informazione dei fatti del giorno

(di cronaca economica e politica e sociale, italiana ed

estera, anche - perché no? - di una certa cronaca nera),

capace non tanto di divertire o di commuovere quanto di

soddisfare il nostro desiderio di sapere e anche le nostre

curiosità culturali, utile, in ogni caso, per esercitare

meglio le nostre responsabilità di cittadini, di

professionisti, di padri e madri di famiglia.

I PAZZI ANNI ‘70

Vennero poi anni terribili. Gli anni Settanta. Sembrava

che un vento di follia si diffondesse anche in ambienti

impensabili: fra uomini di cultura, docenti universitari,

intellettuali in genere; anche fra i giornalisti. Sui fatti

(che spesso erano fatti di sangue e non solo conflitti

di idee, politici e ideologici) si pubblicavano le notizie più

drammatiche senza che se ne conoscesse la provenienza

o se ne accertasse la veridicità; anzi, più che notizie,

erano voci o supposizioni, che diventavano verità su cui

si imbastivano processi e si pronunziavano sentenze.

Da qualche settore dello Stato c'era chi voleva sovvertire

le regole della democrazia; e chi metteva in giro,

accreditandole come ufficiali, false "verità"; ma qualcuno,

in contrapposizione, arrivava a teorizzare che invece di

fare informazione si doveva fare controinformazione.

L'informazione, dall'una e dall'altra parte, come strumento

di lotta politica.

IL BLACK-OUT FU UN ERRORE

Era difficile fare un giornalismo serio. Si potevano

ignorare certe notizie, anche se non trovavano

conferma? Perché poi, contemporaneamente, c'era

chi sosteneva l'opposto; cioè che certe notizie era bene

non darle, per esempio i proclami delle Brigate rosse.

"Black out" si diceva, col vezzo che si ha spesso per le

parole straniere.

Riflessione numero quattro. Una riflessione così ovvia

che è perfino imbarazzante enunciarla, se non fosse

l'esperienza che ci autorizza a farlo. Un giornalismo

serio non fornisce notizie che non siano accertate,

e se non sono certe non le dà come tali e in ogni caso le

attribuisce alla fonte da cui provengono, garantendosi

con quella santa invenzione grammaticale che sono le

virgolette.

E se invece le notizie sono vere, come, purtroppo, erano

Veri i proclami delle Brigate rosse, le notizie non è giusto

nasconderle. Come si fa a combattere il male se non lo si

conosce?

IL COMPUTER MIGLIORA L’INFORMAZIONE

Su qualche fuoco, intanto, bollivano, fumanti, molte pentole.

Pochi si preoccupavano di sapere che cosa c'era dentro.

Alla fine ce ne accorgemmo, molti con sorpresa e interesse,

qualcuno con fastidio e scetticismo: il personal computer,

il passaggio dall'analogico al digitale, Internet.

Bene, il personal computer. Sembrava una macchina per

scrivere più veloce e capace di maggiori prestazioni.

Era molto di più; e migliorava il modo di fare informazione;

costringeva a un linguaggio lessicalmente più sobrio e

sintatticamente più semplice; e condizionava, in meglio,

anche la scelta dei contenuti. Sullo schermo di un pc

si possono leggere tre pagine sul delitto di Cogne? No.

Si può leggere una nota di chiacchiere politiche lunga

due colonne? No.

LE NUOVE TECNOLOGIE? UN GRAN BENE

Bene, perciò, il pc; e benissimo il passaggio dal modello

analogico al modello digitale. Un solo segnale serviva

a gestire la parola scritta, la parola detta, il suono,

l'immagine fissa, cioè la foto, l'immagine in movimento,

cioè il filmato. Grazie anche al processo di

miniaturizzazione nascevano nuovi apparecchi: la

macchina e la cinepresa digitale, il telefonino, il

videotelefonino. Le reti cellulari e satellitari rendevano

più facile e più rapida la raccolta e la distribuzione

delle informazioni.

Riflessione numero cinque. Che momento esaltante.

La digitalizzazione dell'informazione significava

la multimedialità, cioè l'operatività di tutti i media

secondo uno stesso codice binario, e quindi una

semplificazione dei modi di fare informazione.

Significava l'interattività, cioè l'interazione fra chi

produce e chi riceve informazione, e quindi la possibilità

di dialogo fra emissore e ricettore dell'informazione.

Significava l'ipertestualità, cioè la possibilità di collegare

l'informazione corrente con altre informazioni correlate,

e quindi un'informazione più ricca e più completa.

Tutto questo apriva una prospettiva affascinante: la

demassificazione dell'informazione, cioè un'informazione

sempre migliore in un mercato sempre più vasto di

consumatori.

Già; ma il giornalismo come categoria professionale

e come impresa editoriale? In contemporanea era

arrivata anche Internet. Internet è la parafrasi del

mondo. Tutto il bene e tutto il male del mondo, di

un mondo globalizzato, in tempi rapidi; in tempo reale,

anzi, come si dice. Nel campo della comunicazione Internet

era il massimo: era un campo infinito di fonti di

informazione, una grande biblioteca elettronica, un enorme

somma di banche dati, cioè uno strumento prezioso per

moltiplicare e arricchire le informazioni; e insieme un

campo infinito di soggetti cui distribuire quelle

informazioni.

CITIZEN JOURNALISM? BLOGGER?

NESSUN ORDINE LI FERMERA’

I nuovi apparecchi digitali e Internet creavano anche

una realtà nuova: il giornalismo che potremmo chiamare

"amatoriale", il "citizen journalism", come dicono gli

americani; i "blogger", cioè i siti privati che in pochi

anni sono diventati decine e decine di milioni. Con

pochi mezzi e pochi soldi tutti possono diventare

giornalisti e editori di se stessi, anche senza essere

iscritti all'albo professionale.

La libertà di stampa concessa a milioni di persone,

la possibilità per tutti di esprimere opinioni, di

raccontare fatti non conosciuti dai media, anche

di criticare i detentori del potere.

C'è già una storia: i blogger che nel 1999 dal Kosovo

e dall'Iraq ci facevano sapere quello che le autorità

(Milosevic per i primi, Saddam Hussein per i secondi)

non volevano farci sapere. Nel 2005 furono i blogger

e non le agenzie di stampa a dare notizia dell'uragano

Katrina che stava devastando New Orleans, e nel 2006,

durante il bombardamento israeliano di Beirut, è stata

la stessa Cnn a chiedere ai blogger americani che si

trovavano nella città di raccontare che cosa stava

succedendo.

E' il caso, però, di ripetere la domanda: e il giornalismo

come categoria professionale e come impresa editoriale?

IL GIORNALISTA E’ UN MEDIATORE

Riflessione numero sei; ed è anche una risposta alla

domanda. Il giornalismo è mediazione tra la fonte

dell'informazione e il fruitore dell'informazione. Internet

permette al fruitore di raggiungere direttamente la fonte

senza la mediazione giornalistica. Il giornalismo comporta

tre attori: la fonte, il fruitore e il giornalista come

mediatore. Con Internet gli attori diventano soltanto due:

la fonte e il fruitore.

Internet può allora eliminare il giornalismo? Internet ci

mette a disposizione decine di migliaia di fonti. Troppe,

anche con l'ausilio dei motori di ricerca. In ogni caso,

chi ci garantisce l'attendibilità delle fonti? Anche le

fonti autorevoli, che si presentano con un autorevole

biglietto da visita, ci danno quello che ritengono di farci

conoscere, non tutto; e nel migliore dei casi hanno un

codice, e la loro informazione deve essere perciò

decodificata per avere un'informazione sicura.

Poi ci sono le notizie false o manipolate, che certe fonti

producono non per far conoscere la realtà, ma per

modificarla. Vedi la "disinformatia" di un tempo; vedi

episodi recenti (la guerra del Golfo), quando una notizia

falsa fu impiegata addirittura come strumento di tattica

militare, con lo stesso valore di un attacco di carri armati;

o più semplicemente, sabato scorso, quando il "New York

Times" ha scoperto che alcune emittenti televisive

americane avevano come commentatori della situazione in

Iraq generali dell'esercito pagati dal Dipartimento della

Difesa.

Poi i blogger. Viva i "blogger"; ma quasi tutti non sono

stati a scuola di giornalismo, non ne conoscono le

responsabilità, ignorano la deontologia professionale;

e non hanno, a differenza del giornalismo ufficiale,

la convalida o la condanna dei propri lettori.

PROFESSIONALITA’ PER SOPRAVVIVERE

Riflessione numero sette, e ultima. Se l'informazione

si dimostra sempre più indispensabile come strumento

di conoscenza e come strumento di lavoro, l'informazione

deve essere corretta e quanto più possibile esatta.

La sopravvivenza del giornalismo, cioè la necessità di

ricorrere al giornalismo come sicuro organo di base,

dipende quindi dalla misura in cui la sua mediazione

significhi non soltanto gestione delle informazioni che

circolano fuori di Internet e dentro Internet, ma

anche verifica e controllo di quelle informazioni.

Il giornalismo può così tenere fermo il suo posto nella

società riconquistando la sua funzione di mediazione:

una mediazione di verità. E' un problema che coinvolge

non solo i giornalisti, se vogliono salvaguardare il loro

futuro e la loro professione.

Coinvolge anche gli editori e i politici. Coinvolge i politici,

almeno quelli convinti che una società sempre meglio

informata è una società sempre più libera e democratica.

EDITORI RESPONSABILI

Coinvolge gli editori, almeno quelli che vedono negli organi

dell'informazione uno strumento non soltanto per vendere

pubblicità ma anche per contribuire alla crescita del paese;

editori, quindi, che hanno bisogno di giornalisti

professionalmente qualificati e sindacalmente protetti.

L'altro ieri, a Fiuggi, ho introdotto, come sempre, il

Seminario che l'Ordine dei giornalisti organizza ogni sei

mesi per i praticanti alla vigilia degli esami di idoneità

professionale.

Erano 146 praticanti; alcuni avevano già una collocazione

professionale; tanti, invece, erano vittime di un precariato

che sta diventando istituzionale, con un praticantato svolto

un po' qui e un po' là, un po' prima e un po' dopo; molti erano

disoccupati, e quindi con la prospettiva, superato l'esame,

di passare da praticanti disoccupati a professionisti

disoccupati.

A tutti ho detto: ragazze e ragazzi, avete scelto una

professione bellissima, ma difficile. Giornalisti non si

nasce, come qualcuno pensa; giornalisti si diventa; con

lo studio, con la lettura, col far tesoro delle giornaliere

esperienze, con la coscienza di esercitare un lavoro che,

al di là delle sue istituzionali finalità, ha anche una

responsabilità sociale.

Una professione che può essere anche un potere, ma

Non come riflesso o strumento di altri poteri.

Può essere un potere, o un contropotere, nella misura in

cui sia un servizio, svolto con onestà e umiltà, a favore dei

cittadini, unici legittimi detentori del potere.

Queste parole sono state accolte da un grande applauso.

Nonostante la diversità delle provenienze e l'incertezza

del loro futuro, erano tutti d'accordo: sul giornalismo

come responsabilità e come servizio. Vorrei che un'eco

di quell'applauso arrivasse alle orecchie dei politici, degli

editori e anche di qualche giornalista, direttore di

testata o conduttore di talk-show. Il giornalismo come

responsabilità e come servizio.

Sergio Lepri

Roma 23 aprile 2008

Ai colleghi più giovani, che certamente

sanno poco di Sergio Lepri, consigliamo

di navigare un pochino sul suo sito:

http://www.sergiolepri.it

Ricordiamo la biografia di Sergio Lepri,

presa da Wikipedia:

Sergio Lepri (Firenze, 24 settembre 1919)

un giornalista italiano.

Laureato in filosofia nel 1940, dopo l' 8

settembre del 1943, con l'armistizio e la

successiva dissoluzione degli alti comandi,

entra nella Resistenza; aderisce al Partito

d'azione e poi al Partito Liberale Italiano;

diviene dunque direttore a Firenze del

giornale clandestino del Partito liberale

"L'opinione". Segretario politico della

sezione fiorentina del Pli nel 1944-45,

nel 1945 è redattore del quotidiano "La

Nazione del popolo", organo del Comitato

toscano di liberazione nazionale.

Giornalista professionista dal febbraio

1946. Nel 1948, dopo la fine dei Comitati

di liberazione e la nascita a Firenze del

"Nuovo Corriere" socialcomunista, diretto

da Romano Bilenchi, e del "Mattino

dell'Italia centrale", è redattore del

"Mattino dell'Italia centrale", poi

diventato "Giornale del mattino".

Nel 1957 diviene portavoce di Amintore

Fanfani, segretario nazionale della

Democrazia Cristiana ed è poi nominato

capo del Servizio stampa della presidenza

del consiglio con Fanfani presidente nel

1958-59. Assunto dall'agenzia Ansa

(società cooperativa fra i quotidiani italiani)

nel settembre 1960; condirettore

responsabile dal 6 gennaio 1961 e direttore

responsabile nel gennaio 1962.

Ha lasciato l'agenzia il 15 gennaio 1990.

Dal 1988 Sergio Lepri è stato docente di

"Linguaggio dell'informazione e tecniche di

scrittura" nella Scuola superiore di

giornalismo facente parte della facoltà di

scienze politiche della "Libera Università di

studi sociali Guido Carli" Luiss.

 

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