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L’addio di Claudio Rinaldi e Walter Tuzzato
(di Pino Nicotri)



10/07/07


La notizia della morte di Claudio Rinaldi mi è arrivata dopo un paio di giorni da un’altra brutta notizia: la

scomparsa di Walter Tuzzato, collega del Mattino di Padova che feci assumere tra i primi, strappandolo

al Gazzettino, nel 1977 quando Giorgio Mondadori - che mi aveva conosciuto a Repubblica perché lui ne

era il presidente e io il corrispondente dal Veneto - mi aveva chiesto di aiutarlo a far nascere il nuovo

quotidiano. Per il quale, così come per il gemello Tribuna di Treviso, indicai quasi tutti i redattori e i praticanti

da assumere, oltre a qualche buon socio locale. Due scomparse, quelle di Tuzzato e Rinaldi, che hanno reso

questi giorni di inizio luglio per me particolarmente tristi. Il mio primo incontro con Claudio Rinaldi non è stato

affatto dei più rassicuranti. A quell’epoca abitavo in via Canonica, a Milano, e quindi doveva essere più o

meno il 1985. Il Circolo del Ponte della Ghisolfa, di matrice anarchica, aveva indetto un dibattito sul tema della

giustizia e dei terroristi in carcere e il mio amico e collega Leo Sisti mi aveva chiesto di accompagnarlo.

Tra i relatori era previsto ci fosse il magistrato Armando Spataro, che aveva condotto varie inchieste sul

terrorismo compresa una sui Comitati comunisti rivoluzionari, detti anche Cocorì. Tra i ricercati di questa inchiesta

c’era un certo Domenico De Feo e nella sua requisitoria finale Spataro aveva scritto che si trattava del “fratello del

giornalista del settimanale L’Espresso Alessandro De Feo, nella cui redazione non a caso lavorano i giornalisti Mario

Scialoja e Giuseppe Nicotri”. Scialoja era stato arrestato nel dicembre 1980 e aveva fatto un mese di carcere perché

aveva osato pubblicare una intervista al brigatista rosso Giovanni Senzani nei giorni del sequestro del magistrato

Giovanni D’Urso. Io ero stato arrestato l’anno prima, il 7 aprile 1979, assieme al professor Toni Negri, Oreste Scalzone,

Franco Piperno e vari altri, con la delirante accusa di avere sequestrato e ucciso l’onorevole Aldo Moro nonché di essere

tra i membri della direzione strategica dell’intero terrorismo rosso italiano: vale a dire, delle Brigate Rosse, di Prima Linea

e dell’Autonomia Operaia. Nientedimeno! Il mandato di cattura ci addebitava non ricordo più quanti omicidi, al punto che

non riuscii mai a leggerlo per intero. L’istruttoria vide crollare le accuse, tra il lunare e il demenziale, basate comunque sul

nulla più assoluto. Nel frattempo mi ero fatto 90 giorni di detenzione in quattro diversi carceri. E ora quelle righe di Spataro

tentavano di cucirci addosso di nuovo, a me e a Scialoja, un abito assolutamente indebito. C’era però un problema, neppure

tanto piccolo: i due De Feo, Alessandro de L’Espresso e Domenico dei Cocorì, non solo non erano fratelli, ma neppure cugini

né parenti alla lontana, anzi neppure si erano mai conosciuti! Se non ricordo male, Alessandro lo aveva anche specificato in

una lettera pubblicata sul giornale l’Unità. L’affermazione di Spataro, quindi, era non so se ridicola o irresponsabile, ma

comunque molto grave: figurava infatti in un requisitoria finale di richiesta di rinvio a giudizio di un sacco di gente per gravi

delitti. Feci dunque le fotocopie delle due pagine della requisitoria contenenti il delirio spatariano, mi presentai al dibattito,

chiesi la parola subito dopo il magistrato e le lessi denunciandone la assoluta falsità. Ero talmente indignato che calcai la

mano: “Tutti sappiamo che il capitano di una nave può dichiarare marito e moglie i passeggeri che decidono di sposarsi a

bordo, ignoravo però che un pubblico ministero potesse dichiarare fratelli due tizi che nulla hanno a che spartire tra loro. Beh,

se il dottor Spataro le inchieste giudiziarie le fa tutte così, allora stiamo freschi!”. Subito dopo di me prese la parola Rinaldi,

all’epoca direttore del settimanale L’Europeo, che aveva rivoltato come un guanto e reso molto vivace e interessante in vari

settori, valorizzando anche alcuni giovani colleghi. Non mi aspettavo affatto quello che con sorpresa sentii dire, con tono per

giunta un po’ minaccioso: “Nicotri qui ha detto cose molto gravi, di cui sarà bene ricordarci!”. Ero sorpreso, anche perché di

grave non avevo detto nulla, avevo solo – da giornalista – dimostrato che il famoso pubblico ministero tutto d’un pezzo Armando

Spataro era incappato in una gaffe colossale, fin troppo clamorosa, molto all’italiana, di quelle cioè che tolgono credibilità anziché

aggiungerla. Mi sarei piuttosto aspettato che la grave falsità scritta dal magistrato venisse sparata su L’Europeo, cosa che invece

non avvenne, come del resto era ovvio dopo quella strana frase del suo direttore. E poi, comunque, si sa che i giornali non amano

riconoscere i meriti dei giornalisti della concorrenza. Quando Rinaldi – dopo essere passato nel frattempo a dirigere Panorama -

diventò il direttore responsabile de L’Espresso, Leo Sisti ridendo mi disse: “Occhio, che se non s’è dimenticato la faccenda del Ponte

della Ghisolfa, te la farà pagare cara”. Invece non solo non mi fece pagare nulla, ma anzi mi disincagliò dalla morta gora nella quale mi

aveva parcheggiato, per affogarmici, Chiara Beria d’Argentine, l’allora capo redattore di Milano. La figlia di Adolfo Beria d’Argentine,

figlia del procuratore generale della Repubblica, era stata assunta e promossa capo della redazione milanese mentre io ero andato

per due anni e mezzo a Roma come caposervizio di un inserto mensile. Quando la Mondadori entrò nel gruppo L’Espresso e chiuse

gli inserti mensili del settimanale me ne tornai a Milano, dove nel frattempo Beria aveva preso il posto di Renzo Di Rienzo (per la fretta

di occuparne la stanza e la scrivania lo fece rientrare di corsa dalle vacanze natalizie perché le sgombrasse). La nuova capa della

redazione aveva in mente di fare assumere Paolo Colonnello e il mio rientro – come ebbe a dichiarare in una assemblea di redazione

– non le era affatto gradito perché le complicava le cose: “Nicotri mi è capitato tra capo e collo a Milano, preceduto dalla sua fama di

rompicoglioni, mentre io avevo in mente ben altre assunzioni”. Conclusione: un lungo periodo di sottoutilizzo, vero e proprio mobbing

per spingermi ad andarmene, che mi procurò una grave crisi depressiva, compresa una piccola emiparesi alla guancia destra (una cosa

simile era capitata a Paolo Mieli a Repubblica, dove lo staff filo Pci lo detestava e impedì che Scalfari lo nominasse vicedirettore, cosa che

portò all’uscita di Mieli dal gruppo e al suo approdo prima a La Stampa e poi al Corsera. Insomma, il più grande autogol del gruppo

L’Espresso). La scusa di Beria era sempre la stessa, piuttosto barbina: “Tu sei un caposervizio senza servizio, non ti hanno passato inviato,

e io perciò non so come utilizzarti”. Fu Rinaldi a intervenire, su richiesta del CdR: per porre fine allo sconcio, mi nominò inviato.

Uno smacco per la Beria, che oltretutto quando era redattrice a Panorama e vi arrivò Rinaldi se ne era andata sbattendo la porta,

assieme al marito e collega Farneti, perché il neo direttore dirigeva e decideva senza badare alle pretese di chi era abituato a far

“decidere all’assemblea”. “Se ti incontro per strada ti graffio!”, corse voce all’epoca che lei gli avesse gridato come commiato.
Sta di fatto che non appena Beria finalmente se ne andò (a La Stampa, assunta dal molto amico di famiglia Cesare Romiti) Rinaldi

prese a valorizzarmi, inviandomi per esempio in Kosovo con le truppe italiane mandate a porre fine alla mattanza dei kosovari per

mano dei serbi. Fin qui i ricordi personali, in base ai quali posso testimoniare che Claudio Rinaldi a L’Espresso si è comportato da

collega e direttore galantuomo. Oltre a non lasciarsi condizionare nei miei confronti dal brutto incontro al Ponte della Ghisolfa, non

si lasciò condizionare neppure dalla ruggine di Beria maturata a Panorama, infatti la lasciò caposervizio di Milano. Ma che Rinaldi

fosse un giornalista e un direttore di tempra e di vaglia non c’è bisogno che lo dica io, lo dimostrano i fatti. La passione civile che si

portava dentro fin dai tempi della sua militanza in Lotta Continua non è mai venuta meno. Fu grazie a questa passione che fece de

L’Europeo un settimanale di punta, tanto che questo non si è più ripreso dopo l’uscita di quel direttore. E quando a Panorama arrivò

Berlusconi, Rinaldi non ci pensò troppo ad andarsene. Il suo approdo a L’Espresso, dove un problema personale aveva messo fuori

gioco il direttore Giovanni Valentini, era quanto mai naturale. La formazione giornalistica e culturale di Rinaldi era infatti laica e dello

stesso stampo del filone che nasce con il Mondo di Pannunzio, prosegue con il Giorno dei primi anni, quando vi lavoravano Giorgio Bocca

e Natalia Aspesi, si irrobustisce con L’Espresso di Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo e si perfeziona infine con

la Repubblica, voluta e creata da questi ultimi due. E’ lo stesso filone che con Paolo Mieli, cresciuto alla scuola de L’Espresso e di Scalfari,

rinnova due quotidiani come la Stampa e il Corriere della Sera, che da paludati e un po’ troppo padronali diventano agili e moderni, molto

più attenti alla realtà non solo di parte. Rinaldi ha guidato L’Espresso nei tempi di Tangentopoli e Mani Pulite, sfociati nella “discesa in campo”

di quel Berlusconi che aveva visto sbarcare a Segrate. Claudio ha saputo dare voce allo sdegno e alla speranza dell’Italia intera, mordendo

ai polpacci il Cavaliere così come a suo tempo Scalfari e Lino Jannuzzi per il bene del Paese avevano morso molti altri polpacci. La malattia

ha purtroppo allontanato Rinaldi dalla direzione de L’Espresso, sostituito da Giulio Anselmi, famoso più come “silent killer”, soprannome

che si è guadagnato per la sua capacità di sfoltire a tutti i costi le redazioni, che come grande direttore. Con Anselmi e le sue riduzioni

del personale nelle varie redazioni da lui dirette è iniziato, a mio parere, il periodo dello smantellamento del giornalismo inteso come

frutto di una intera redazione guidata da un direttore. Ed è nato il giornalismo sempre più frutto di uno staff ristretto, e strapagato,

e di un mare di collaboratori esterni trattati non proprio bene neppure a quattrini. Il tutto con alla guida un direttore che

rappresenta e garantisce, a volte come lo staff, più l’editore che la redazione. La voglia di assumere direttori e capi vari

non più con contratto giornalistico, ma con contratto di dirigenti aziendali, nasce con l’avvento dell’era Anselmi. Deve

essere per questo che l’ottimo Giulio ha sempre una faccia più triste che allegra e molto poco accattivante. Rinaldi

anche da malato, e da malato grave, è stato decisamente un uomo di livello eccezionale: non ha mai smesso di fare

il giornalista, con immutata passione civile e attenzione alla pericolosa corte dei miracoli di Arcore e dintorni, e non si è

mai lamentato. Non si è mai pianto addosso. Non si è mai nascosto, non si è mai isolato, non si è mai chiuso in se stesso,

non è mai diventato ingeneroso o avaro di sé. A differenza di un Giampaolo Pansa, ha saputo essere uomo misurato,

senza mai saltare dall’altra parte né per delusione né per disperazione né per opportunismo. Insomma, un giornalista

e un uomo raro. Rarissimo. Specie di questi tempi.

Pino Nicotri


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