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GIORNALISMO DI GUERRA/Reporter come target




Il 3° Cangresso di Senza Bavaglio è cominciato il 9 aprile con una tavola
rotonda. Antonella Cremonese ha fatto per noi la cronaca del dibattito.

"Al Jazeera la ascolto, ma non mi fido. Gli americani li ascolto, ma non mi
fido. Per esempio, gli americani smentivano l'esistenza di tombe scavate
nello stadio di Falluja. Ci sono andata, e le tombe c'erano".

Al 3° congresso nazionale di Senza Bavaglio, che si è svolto a Levico Terme
l'8, 9 e 10 aprile, la giornalista di guerra freelance Barbara Schiavulli ,
corrispondente dall'Iraq per l'Avvenire e L'Espresso e collaboratrice di
Radio Vaticana, ha riaffermato l'importanza di "andare di persona" a
controllare le notizie. E ha ricevuto i complimenti di Robert Wiener, il
famosissimo ex senior producer della Cnn che nella prima guerra del Golfo
permise all'emittente americana lo scoop mondiale di trasmettere le immagini
del bombardamento di Bagdad.

La tavola rotonda alla quale hanno partecipato Robert Wiener e Barbara
Schiavulli , e che è stata mopderata da Carla Chelo di Studio Aperto, era
attesa con curiosità per l'annunciata presenza di Imad El Atrache,
giornalista di Al Jazeera, e avrebbe dovuto svilupparsi intorno a un tema
nuovissimo, "Com'è cambiato il giornalismo di guerra con l'arrivo delle TV
arabe" . El Atrache non è arrivato ("Sappiamo che era a Roma per i
funerali del papa, poi si sono perse le sue tracce" , ha raccontato Massimo
Alberizzi) ma le testimonianze di Wiener e Schiavulli hanno aperto la
strada a un tema di grande interesse: che cosa è diventato il giornalismo
di guerra in epoca di globalizzazione mediatica.

Ha detto Wiener: "Il giornalismo di guerra è cambiato. Nel Vietnam sono
morti giornalisti e fotografi, ma da Serajevo in poi noi giornalisti siamo
diventati un obiettivo. A San Salvador si poteva girare inalberando sulla
jeep il cartello "Giornalisti. Non sparate" , ma adesso tutto è cambiato, e
tutto è più difficile. Si calcola in 3000 dollari al giorno il costo da
affrontare per la sicurezza di un inviato, e non è poco. Però, io non mi
sento a mio agio se devo girare con le guardie del corpo."

Una situazione che rende il giornalista meno libero, e condiziona il suo
modo di lavorare.

Barbara Schiavulli, da freelance che deve pagarsi tutto (il viaggio,
l'albergo, il traduttore, l'auto, il satellite, le telefonate, il giubbotto
antiproiettile, il cibo) non ha soldi da dedicare alla propria sicurezza.
Perciò ha raccontato come si protegge: "In Iraq io vado in giro vestita da
donna sciita, e mi aiuta il fatto di essere bruna e di carnagione scura.
Certo, se uno è alto, biondo e con gli occhi azzurri, l'Iraq non fa per
lui."

Poi Barbara ha fatto una considerazione: "In Iraq ti colpiscono se ti
ritengono straniero, non ti colpiscono in quanto giornalista. La regola è
non parlare, non rispondere al telefono dalla camera d'albergo, non farsi
osservare. Nella sala d'aspetto di un medico che aveva avuto un familiare
rapito (la borghesia irachena è bersagliata da rapimenti a scopo di
riscatto) mi sono seduta tra altre donne che mi assomigliavano, e la mia
traduttrice mi ha presentata come una sua cugina sordomuta. Se fai tanto di
far capire che sei straniero, ti rapiscono e per 1000 dollari ti rivendono a
un gruppo."

L'epoca della globalizzazione ha fatto sorgere problemi assolutamente
inediti, che complicano il tradizionale discorso dell'affidabilità delle
fonti, perché introducono la possibilità della manipolazione mediatica.
Robert Wiener ha raccontato che ci si può trovare clonati: "Quando gli Stati
Uniti hanno occupato Haiti, un generale ha affermato che loro erano
perfettamente in grado di allestire nell'isola un finto studio della Cnn, di
oscurare il segnale dell'emittente vera e di trasmettere da quello studio un
notiziario finto, naturalmente pro amministrazione".

In Iraq, ci sono anche i provider dell'informazione-spettacolo.
Un'informazione che sta perdendo di vista sia la notizia sia l'etica. Ha
raccontato Barbara Schiavulli: "Vengono offerti in vendita dvd con la
ripresa di sgozzamenti. Ma che senso ha mandare in onda la morte di un
uomo?"

C'è la difficoltà, nella crescente massa d'informazioni, di orientarsi tra
quelle affidabili e quelle che non lo sono. Il lavoro del giornalista sembra
ormai immerso in una tempesta magnetica di enorme proporzione, in cui la
bussola dell'esperienza rischia di non servire più. A complicare le cose c'è
una gara serrata a chi dà la notizia per primo, senza aspettare e
verificando poco o niente: "Le due Simone le abbiamo ammazzate due-tre
volte. La notizia su Giuliana Sgrena è stata data dieci minuti prima che
fosse avvertita la famiglia"

E Internet, questo larghissimo fiume nutrito da milioni di rivoli di
notizie, come ha cambiato il giornalismo? Difficile dirlo, perché può
convogliare le email di testimonianze dirette dai luoghi di un avvenimento,
ma "può anche essere l'invenzione di un cinese burlone". ha detto
Schiavulli.

Proprio l'affermarsi di mezzi tecnologici sempre più potenti e sofisticati,
e sempre più potenzialmente mistificatori, sta rendendo indispensabile un
giornalismo di testimonianza, di coraggioso scrupoloso reportage. Ha
chiesto Carla Chelo: "E' così importante esserci sempre, in guerra?" Ha
risposto Robert Wiener: "Nella prima guerra del Golfo si trasmetteva
dall'Arabia Saudita. Se non fossimo andati a Bagdad. non si sarebbe saputo
nulla del bombardamento. Non bisogna mai dire che non vale la pena morire
per una notizia, perché così facendo si sottovaluta il lavoro di chi è morto
mentre cercava notizie".

In una guerra, i giornalisti liberi impicciano, sono sgraditi perché possono
diventare i testimoni scomodi di verità che si vogliono nascondere o
alterare. Come l'aver svelato che la moschea in cui i soldati Usa sparavano
a un gruppo di ribelli era lo stesso teatro d'azione del giorno prima, e che
quello non era un conflitto a fuoco, ma l'operazione in cui si liquidavano i
feriti.

Verità pericolose, destabilizzanti. Così è nato il giornalista "embedded",
che va al seguito delle truppe della coalizione occidentale in Iraq e
riceve protezione in cambio di compiacenza nel fare la cronaca. Non è una
novità, le guerre coloniali e la prima e seconda guerra mondiale già avevano
istituito questa figura, ma gli americani l'hanno perfezionata. E i Paesi
della coalizione si stanno allineando. Ha denunciato Massimo Alberizzi: "In
tutti i Paesi c'è una forte spinta a limitare il lavoro dei corrispondenti
di guerra. E nel Parlamento italiano si è proposto di applicare il codice
militare di guerra al lavoro dei giornalisti che seguono un conflitto."

Poi, il dibattito. Ha detto Pino Nicotri, inviato de L'Espresso: "La vera
prima linea è qui. Se ci vogliamo interrogare sulla verità, dobbiamo
incominciare sull'atteggiamento tenuto dai media prima della guerra in Iraq.
Una guerra che è stata preparata con balle colossali, tipo articoli che
dicevano <Continua la produzione di bombe atomiche in Iraq>. E' da notare
che all'inizio di tutte le guerre c'è una balla".

Renato Ferraro, che è stato inviato di guerra per il Corriere della Sera e
per dieci anni suo corrispondente dalla Cina, ha fatto notare la
progressiva sparizione delle agenzie davvero indipendenti ("L'unica grande
agenzia, dalla quale si possono ricavare notizie affidabili, è rimasta la
Reuters") , e ha sottolineato il grande paradosso della globalizzazione
mediatica: "Proprio il fatto di lavorare in un sistema d'informazione
integrato fa sì che i giornalisti di guerra escano sempre di meno dalla
stanza d'albergo. Perché in redazione stanno guardando la Cnn, e se anche tu
non stai davanti alla Cnn, poi ti dicono che hai preso il buco."

Poi Ferraro ha ripreso il tema sconcertante dell'informazione-spettacolo:
"Mi ricordo un libro profetico del 1967, <La società dello spettacolo>, in
cui si asseriva che lo spettacolo sarebbe stato usato come arma distruttiva.
Ci siamo arrivati. C'è spettacolo permanente di democrazia. Che non c'è.
Spettacolo di abbondanza: E la gente non arriva alla fine del mese.
Spettacolo d'informazione. E in realtà la gente non sa nulla".

Anna Costantini, freelance di Roma che fa inchieste per Il Manifesto, ha
raccontato di uno studio in cui sono stati esaminati i filmati tv di
guerra: "E' stata provata senza ombra di dubbio la differenza di contenuti
tra l'immagine e il parlato. Le immagini raccontano una storia, le parole
un'altra. E le parole sovrastano l'immagine, perché è stato scoperto che non
si guarda la tv, ma la si ascolta."

Zenone Sovilla, riprendendo le osservazioni di Pino Nicotri ha parlato di
gravi responsabilità dei media. Che in tanti casi non hanno fatto
informazione, ma propaganda alle tesi governative. . Ha detto: "Siano stati
complici in modo acritico, per esempio sull'economia. Ripetendo che la
flessibilità del lavoro avrebbe creato benessere per tutti, e in pratica
propagandando come un bene il fatto che avere un lavoro poco sicuro e mal
pagato è preferibile all'avere un lavoro sicuro e pagato meglio".

 

Antonella Cremonese


Levico Terme, Valsugana, 10 aprile 2005


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