CASO SGRENA/Ragion di Stato e verità: conflitto di interessi tra militari e giornalisti
Il mese scorso Eason Jordan, il capo delle news, cioè il direttore, della
CNN ha dato le dimissioni (che noi abbiamo commentato su questo e-group e
sul nostro sito www.senzabavaglio.info con un intervento di Robert Wiener,
ex senior producer della CNN) perché, durante il suo intervento alla
conferenza di Davos, si era permesso di segnalare che le forze americane in
Iraq avevano deliberatamente attaccato i giornalisti.
Jordan, giornalista esperto e libero, era stato criticato pesantemente
dall'establishment degli Stati Uniti che l'aveva definito antiamericano e
antipatriottico e, soprattutto, di propagare notizie false e tendenziose.
Un'accusa pesante per un bravo e devoto cittadino degli Stati Uniti, dove
l'audience della CNN è stata surclassata da quella della Fox, emittente
conservatrice, spregiudicata e decisamente schierata con la politica della
Casa Bianca. (Ricordo come simbolo dell'antigiornalismo le immagini del loro
corrispondente da Tora Bora, il famosissimo e superpagato Geraldo Rivera,
che, nel settembre 2001, si presentò davanti al video imbracciando un mitra
e urlando "Se trovo Bin Laden lo ammazzo").
Ebbene, oggi, con l'attacco inconcepibile e inaudito contro l'auto di
Giuliana, tornano alla memoria quelle inattese e curiose (ma anche sospette)
dimissioni. Allora aveva ragione Jordan. Lui sapeva cosa stava accadendo in
Iraq, forse perché i suoi reporter l'avevano informato.
Non credo che Giuliana sappia qualcosa che gli americani non vogliono che si
sappia. Piuttosto penso che dia loro fastidio il fatto stesso di avere dei
giornalisti tra i piedi. Persone che sfuggono al loro controllo e, giusto
per questo, vanno piegate all'obbedienza, alle esigenze dell'apparato
propagandistico.
Attenzione: questo atteggiamento non è solo degli americani. Fa parte della
cultura dei militari, della cultura della guerra.
I giornalisti, nel contesto bellico, diventano una forza in campo.
Attraverso i loro reportage sono in grado, di cambiare gli equilibri e
determinare gli esiti dei conflitti. La guerra del Vietnam finì grazie ai
media o meglio grazie all'opinione pubblica che, attraverso i media, si rese
conto di cos'era la realtà (per inciso, Robert Wiener è stato il più giovane
corrispondente di guerra in Vietnam).
Dunque giornali, radio e televisione fanno paura, forse più delle autobombe,
che oggi in Iraq colpiscono soprattutto civili iracheni inermi. I media
possono centrare il cuore del sistema.
Solo i giornalisti possono farci sapere, ad esempio se i militari italiani a
Nassyria sono in missione di pace o partecipano a un'operazione di guerra. E
quindi farci capire se il nostro governo sta barando o meno. Le
implicazioni, ne sono convinto, sono chiare per tutti.
E' chiaro, a questo punto, che sulla morte di Nicola Calipari e sul
ferimento di Giuliana il meno legittimato a condurre l'inchiesta è
l'esercito americano. E' bene ricordare come i militari americani siano
sempre stati assolti dalle accuse di deliberato attacco ai giornalisti,
cominciati, per quanto riguarda l'Iraq, dalla cannonata contro l'hotel
Palestine, sparata il giorno del loro arrivo a Bagdad.
In quell'occasione vennero uccisi due colleghi. Chi sparò non venne
incriminato, nonostante le testimonianze di chi vide cosa accadde quel
giorno (in particolare il corrispondente della britannica Sky News, David
Charter),
Prima dell'invasione dell'Iraq, Kate Adie, una delle più apprezzate ex
corrispondenti di guerra della BBC scoprì, durante un'intervista alla radio,
che i reporter non embedded, cioè non intruppati, potevano diventare
facilmente un obiettivo del Pentagono. Un alto funzionario del ministero
aveva chiaramente sostenuto "che le forze della coalizione avrebbero
tranquillamente potuto sparare sulle postazioni dei telefoni satellitari dei
corrispondenti" nelle zone controllate da Saddam.
All'obiezione della collega se ci si rendeva conto delle possibili, nefaste
conseguenze la risposta era stata chiara: "Non ci importa niente: li abbiamo
avvisati". Kate reagì, sostenendo che il Pentagono era ostile alla
diffusione di notizie "non controllate".
Nel novembre del 2001 Phillip Knightley, scrisse sul Guardian qualcosa di
interessante: "Finora nessun soldato americano e britannico ha perso la vita
mentre sono stati uccisi ben sette giornalisti" (tra cui la nostra Maria
Grazia Cutuli). Il collega del Guardian concludeva. "E' più salutare far
parte dell'esercito, che del clan dei media. Cosa sta succedendo?"
Chi pensa ancora che le intenzioni degli americani in Iraq e in Afghanistan
siano benevole, nonostante le atrocità venute alla luce ad Abu Ghraib e a
Bagram, può archiviare il caso Calipari come una fatalità. Ma è certo, però
che di fatalità contro i media ce ne sono state parecchie. Che dire delle
bombe sugli uffici di Al Jazeera a Kabul prima e a Bagdad poi, nonostante i
colleghi avessero date le coordinate alla coalizione? Quelle bombe non hanno
nulla a che vedere con il fatto che nel nuovo Iraq, "libero e democratico",
l'emittente del Qatar non può né entrare, né trasmettere"?
E' stata pure guidata dalla coincidenza quella bomba "vagante", che ha
colpito Abu Dhabi Television lo stesso giorno che è stato attaccato un
fuoristrada della Reuters?
Casuale anche la morte di Mazen Dana, cameraman della Reuters, che
nell'agosto 2003 stava filmando l'esterno delle prigioni di Abu Ghraib?
"Sapevano che eravamo giornalisti - dichiarò allora Staphan Breitner, un
collega di France 2 presente al momento dell'omicidio -. Eravamo lì da una
mezz'oretta!"
Mi sono venute in mente queste considerazioni, quando mi ha telefonato
mentre ero in Darfur, il collega Michele Concina del Messaggero, chiedendomi
cosa ne pensavo del ritiro "totale e incondizionato" dei giornalisti
italiani dall'Iraq. Io credo che la stampa non se ne debba andare anche se
le condizioni di lavoro sono difficili, precarie e pericolose. Lasciare mano
libera alla propaganda è rischioso per la democrazia. Scrivere i pezzi da
una stanza d'albergo è differente dallo scrivere a Roma o a Milano. Si
respira l'aria, si colgono gli umori, si mandano a raccogliere notizie
stringer e collaboratori locali, si ricevono in camera informatori e
collaboratori. Insomma, non è il massimo ma è pur sempre qualcosa.
Per altro, ritengo che la FNSI debba assolutamente attivarsi con la IFJ (la
Federazione Internazionale dei Giornalisti) perché sia affidata alle Nazioni
Unite un'inchiesta sulla morte di Nicola e sul ferimento di Giuliana,
parallela a quella dell'esercito americano.
Nemmeno la presenza di un generale italiano tra gli investigatori
statunitensi, salutata come il toccasana che sarà in grado di svelare la
verità, può garantire l'indipendenza di un'indagine.
Tra militari e giornalisti c'è un conflitto di interessi intrinseco: per i
militari è molto più importante la ragion di Stato, per i giornalisti la
ricerca della verità.
Massimo A. Alberizzi
15 marzo 2005