Precariato e giornalismo: la via d'uscita è un mercato forte
(di
Senza Bavaglio)
02/07/06
Questo documento è stato portato all'audizione di Senza Bavaglio
alla Commissione cultura della Camera, cui hanno partecipato Simona Fossati,
Olga Piscitelli e Marilisa Verti.
Roma, Audizione Commissione Cultura alla Camera
29 giugno 2006
I problemi del precariato nel mondo giornalistico sono tutti legati
alla formazione professionale, all'ingresso e al rientro nel mercato del
lavoro e al turn over bloccato.
In un panorama diversificato di figure contrattualizzate e
freelance, manca qualsiasi possibilità di scambio dei ruoli. La precarietà
viene troppo spesso confusa con la flessibilità.
Invece, deve essere possibile scegliere sia l'esercizio della libera
professione, sia il lavoro in redazione. Ognuna delle figure istituzionali
preposte deve recuperare il suo ruolo: gli editori tornare all'imprenditoria
"editoriale", l'Ordine vigilare sulla disciplina del lavoro, il sindacato
fissare le regole contrattuali e verificare la loro applicazione, i
giornalisti recuperare il senso di appartenenza alla categoria. Presi dalle
mille sfaccettature del problema occupazionale per i giornalisti di carta
stampata, radio e tv, si corre inoltre il rischio di trascurare internet e
le nuove tecnologie. Con i suoi 137 milioni di euro di pubblicità per il
2005 (dati Nielsen) il mondo dell'informazione in rete è in crescita:
un'industria con costi di produzione ridotti e margini di crescita elevati;
un terreno di coltura fin troppo fertile per i nuovi precari.
La strada unica, per tutti i tipi di giornalismo, è quella di creare
un mercato esterno forte sia dal punto di vista delle regole, sia dal punto
di vista economico fondato su criteri meritocratici. Per far questo occorre
che il giornalista, qualunque tipo di giornalismo eserciti, non dimentichi
la deontologia.
Formazione professionale
La formazione professionale giornalistica, di pertinenza esclusiva
dell'Ordine, è la prima maglia larga del sistema. Le strade seguite finora
si sono dimostrate inadeguate. Non solo per l'ingresso nel mondo del lavoro,
anche per l'aggiornamento professionale di chi è già in attività.
Nascono in continuazione scuole riconosciute dall'Ordine, corsi
universitari che garantiscono il praticantato agli iscritti, ma il numero di
professionisti sfornato ogni anno non viene assorbito dal mercato e finisce
così per alimentare le liste di disoccupazione e il bacino dei precari.
I lavoratori autonomi devono poter avere gli strumenti per mantenere
alto il livello della loro professionalità, ma l'aggiornamento professionale
non deve essere demandato solo all'iniziativa personale. I pochi corsi di
qualificazione professionale non sono spesso all'altezza delle aspettative e
quasi mai sono alla portata di tutti.
Gli editori devono tener conto delle maggiori competenze
professionali anche nella valutazione dei compensi: i giovani ne
riceverebbero stimoli per continuare il percorso formativo e si eviterebbe
il deprezzamento del capitale umano dei giornalisti con più esperienza.
Ingresso e rientro nel mercato del lavoro
Difficile entrare nel mondo del lavoro formale per i giovani in
cerca di primo impiego: l'età media per il raggiungimento del contratto a
tempo indeterminato è di 38 anni. Impossibile scegliere di uscire dalle
redazioni per un periodo, per poi rientrarvi. E' un esercizio giudicato
folle, in Italia, eppure praticato sia in Europa sia negli Stati Uniti. Per
il mercato italiano chi cambia spesso giornale non è come nel resto del
mondo un professionista che ha molta esperienza, ma un giornalista dal
carattere inaffidabile, sul quale non si può far conto.
Fuori dalle redazioni ci sono i giornalisti che hanno scelto la
libera professione e quelli costretti a subirla, messi ai margini dalla
crisi del settore e dal diffuso sistema di cooptazione che vige tra le
scrivanie delle grandi testate giornalistiche. In questo limbo, a fianco dei
freelance, si dividono il mercato dell'informazione i disoccupati, gli
inoccupati, gli occupati con contratti temporanei di vario tipo, tutti
compresi nel mondo del precariato. Contro di loro giocano un ruolo ai limiti
della concorrenza sleale e dell'esercizio abusivo della professione quanti
pur avendo una professione altra, stipendiata, praticano a vario titolo il
giornalismo. Il vecchio concetto che tradizionalmente riassumeva con il
titolo di pubblicista l'avvocato o il commerciante che nel tempo libero si
dedicano al giornalismo è ormai superato. Estendere il riconoscimento a
tutto campo e a 360 gradi dell'attività giornalistica ha incrementato oltre
alle tessere dell'Ordine solo debolezze di sistema.
Oggi che con le nuove tecnologie l'accesso alle fonti, alle notizie
e ai loro mezzi di diffusione si è allargato non potremo non porci il
problema, nel rispetto dei principi e dei valori dettati dalla nostra
Costituzione. Siamo davvero tutti giornalisti?
FlessibilitA' o precarietA'?
Flessibilità e precarietà sono termini che vengono troppo spesso
utilizzati l'uno per l'altro.
Il precariato è un inibitore di capacità professionali, perché
distorce e forza verso risultati immediati e scoop ad ogni costo, facendo
fare ciò che l'editore desidera e non quanto ci si aspetta dal lavoro
critico del giornalista.
Il mercato del lavoro autonomo sembra aver perso ogni parametro di
riferimento. A fronte di un aumento del costo della vita, i compensi vengono
ridotti d'ufficio anche nei gruppi editoriali di media grandezza come ad
esempio le Edizioni Paoline e Class editori. Le regole vengono infrante a
più livelli, i giornalisti che pretendono il riconoscimento dei loro diritti
sono emarginati. Così capita che il gruppo Riffeser-Monti che edita tra
l'altro il Giorno, il Resto del Carlino e la Nazione passa da un compenso
già molto basso (fino a 14 euro ad articolo) a uno irrisorio, non
trattabile, che va da 4 a 10 euro per i primi 50 articoli al mese, i
successivi li liquida con due euro lordi, comprese le spese.
La più grande agenzia giornalistica italiana, l'Ansa, corrisponde da
cinque a quindici euro lordi a lancio. Il gruppo Cairo editore paga fino a
500 giorni dopo la pubblicazione di un articolo, disattendendo la legge
362/2002 che prevede il saldo di ogni prestazione autonoma a 30 giorni dalla
consegna del lavoro. La Mondadori applica ormai i co.co.co. di terzo
livello, pagati a giornata e con obbligo di presenza quotidiana: chi perde
un giorno di lavoro, recupera il sabato.
I compensi, va detto, non sono mai stabiliti a priori.
Disoccupazione
La torta del precariato comprende una larga fetta di disoccupati. I
dati di bilancio dell'Inpgi, per il 2005, rivelano 1465 giornalisti in
trattamento di disoccupazione e 98 cassintegrati. In tutto, per l'anno
scorso, 1563 giornalisti che percepiscono il sussidio per tre anni a partire
dalla cessazione del loro contratto. Sono calcoli purtroppo inesatti: non
comprendono quanti, alla fine dei tre anni escono dalle liste pur senza aver
trovato un lavoro.
La tabella pubblicata su Inpgi Comunicazione n.1-6/2006 (a pagina 5)
elenca: 13.793 professionisti, 1.107 praticanti, 1.928 pubblicisti, per un
totale di 16.828 giornalisti. A questi vanno aggiunti i 22.180 iscritti alla
gestione separata dell'Inpgi per il lavoro autonomo.
Se al numero degli iscritti all'Albo negli elenchi dei
professionisti, vale a dire ai 21.329 che risultano al 30 novembre 2005,
sottraiamo i 3.724 colleghi in pensione e i 13.793 professionisti titolari
di rapporto di lavoro dipendente, il risultato è di 3.812 professionisti non
contrattualizzati, pari al 18 per cento degli iscritti all'Albo. Tra questi
figurano anche i disoccupati, cioè i 2.653 iscritti negli elenchi Fieg-Fnsi
(dati al 12/6/2006, fonte: Federazione nazionale della stampa italiana): un
tasso di disoccupazione pari al 12,5% tra i professionisti, 5 punti in più
del tasso Istat nazionale (7,4%).
Il problema delle nuove tecnologie
Per la prima volta in Gran Bretagna la pubblicità online ha superato
quella sui giornali nazionali con una quota rispettivamente del 13,3 e 13,2
del totale di 12,2 miliardi di sterline (18 miliardi di euro) del mercato
pubblicitario inglese. Negli Usa la pubblicità online è salita del 34% nel
2005. Che il mercato italiano sia diverso è indubbio: 8.469 milioni di euro
di investimenti pubblicitari per il 2005, in aumento del 2,7% circa rispetto
all'anno precedente, assorbiti per il 56,2% dalla televisione.
Ma la crescita degli investimenti nel mondo del web è consolidata e
sotto gli occhi di tutti gli osservatori del mercato. Gli editori, dopo la
"bolla" tornano a puntare sulla rete e scommettono sulle sinergie, come
Repubblica.it che ora ha anche una webradio in diretta, come Corriere.it che
per la campagna elettorale ha sperimentato le interviste con webcam, in
linea con quanto accade all'estero. In prospettiva, è sicuro, si andrà verso
il servizio a pagamento: internet è un mezzo sorprendentemente riflessivo,
lo hanno capito in America, dove il New York Times fa pagare solo i commenti
online.
Non crescono però di pari passo i colleghi che lavorano in internet,
nascosti troppo spesso da contratti per metalmeccanici o da tute arancione.
O, peggio, occupati con contratti a termine tirati in ballo per quelle che
continuano da anni a considerare "nuove iniziative editoriali". Chi
corrisponde notizie per il web, spesso non è neppure giornalista. Blogger e
Citizen Journalist sono considerati l'ultima frontiera dell'informazione,
influenzano e controllano il lavoro dei giornalisti. Il valore aggiunto che
la rete offre in termini di democrazia partecipata è insopprimibile. Ma
internet per definizione è un mezzo anarchico e per avere un sistema
strutturato di notizie occorre dare un'organizzazione all'informazione
online, in termini di struttura, coerenza e credibilità. E le reputazioni
hanno un valore anche economico.
Contributo previdenziale uniforme
A differenza delle altre categorie di lavoratori autonomi, i
giornalisti liberi professionisti, compresi disoccupati e precari, versano
il 10 per cento di contributo previdenziale obbligatorio contro il due per
cento a carico degli editori. Contributo previdenziale obbligatorio
insufficiente a garantire una pensione adeguata. E' però insostenibile
arrivare ad una percentuale maggiore a carico dei lavoratori che già oggi
considerano questa quota più una tassazione che un investimento su una
pensione che non prenderanno mai.
La strada deve essere quella di aumentare la percentuale
contributiva con un onere maggiore a carico degli editori e versato
direttamente all'Inpgi.
Un mercato del lavoro forte
Solo un mercato che contempli tariffe alte, adeguate al livello
professionale dei giornalisti, potrà permettere a chi vuole esercitare la
libera professione di vivere del proprio lavoro e di non sottostare ai
ricatti degli editori e a chi voglia prendersi una pausa dal lavoro di
redazione, di potere esercitare la professione in modo autonomo, senza
rimetterci economicamente.
Qui sta il nocciolo della flessibilità: un mercato autonomo forte
permette anche lo scambio dei ruoli e il rientro dei disoccupati. La posta
in gioco è alta e comprende anche le libertà di stampa, espressione,
opinione e critica garantite dalla nostra Costituzione oltre che il diritto
dei cittadini alla migliore informazione possibile.
Per un mercato del lavoro davvero libero è indispensabile un
tariffario parametrato al costo dei giornalisti assunti, codificato come per
esempio quello di altri ordini professionali, vedi avvocati, e rispettato
dalle parti, a norma di legge. Il trattamento economico deve tener conto del
diritto all'assistenza.
Qualunque prestazione lavorativa deve avere la stessa copertura
previdenziale, indipendentemente dal tipo di contratto, il che significa che
si deve arrivare ad uniformare le aliquote contributive tra lavoro
dipendente e lavoro autonomo. Fermo restando che anche per quest'ultimo il
versamento deve essere a carico dei committenti.
Senza Bavaglio