SPORTELLO ASSISTENZA LEGALE
FAQ Mobbing
2. Quali sono le caratteristiche del mobbing?
3. cosa si intende per frequenza e durata del comportamento mobbizzante?
4. Quali sono le modalità di attuazione del mobbing?
6. Quali caratteristiche ha il mobbizzato?
7. Che peso hanno le condizioni personali delle vittime del mobbing?
9. Qual è l’obiettivo del mobber?
10. Quali sono gli ambienti lavorativi in cui è più frequente il mobbing?
11. Quali sono le reazioni più comuni dei mobbizzati?
12. Quali sono i sintomi accusati dal mobbizzato?
13. cos’è il disturbo post traumatico da amarezza?
14. in che modo si valuta la lesione da mobbing?
15. quali atteggiamenti è preferibile adottare laddove si ritenga di essere vittime del mobbing?
16. come è possibile difendere giudizialmente i propri interessi?
17. Quali sono le conseguenze del mobbing?
18. quali sono i danni risarcibili?
21. cos’è il danno esistenziale?
22. cos’è il danno da mobbing?
23. come viene stilata una perizia sul mobbing? .
24. qual è il ruolo del consulente tecnico d’ufficio?
25. In cosa consiste il doppio mobbing?
27. che portata ha il fenomeno?
28. quali sono le norme di riferimento
29. qual è l’orientamento più recente della giurisprudenza in tema di mobbing
30. Cosa accade nelle redazioni?
Secondo la definizione del Leymann, il primo studioso del fenomeno, il mobbing è «una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico, posto in essere in forma sistematica –e non occasionale o episodica- da una o più persone, soprattutto nei confronti di un solo individuo il quale, a causa del mobbing, viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Queste iniziative devono ricorrere con una certa frequenza (statisticamente almeno una volta alla settimana) e nell’arco di un lungo periodo di tempo (statisticamente per almeno sei mesi). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata del comportamento ostile questa forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali».
Più in generale, ed anche alla luce delle più recenti pronunce della giurisprudenza, si può affermare che il mobbing consista in un insieme di atti e comportamenti, attivi e/o omissivi, finalizzati ad escludere, emarginare, isolare o, in ogni caso, danneggiare uno o più soggetti, con intento persecutorio ed in modo sistematico, duraturo ed intenso.
Può quindi affermarsi la sussistenza del mobbing laddove vi siano atti vessatori o persecutori, attuati da superiori, pari grado, inferiori e datori di lavoro, tesi a discriminare, screditare o comunque danneggiare il lavoratore nella propria carriera, nello status, nel potere formale o informale, nel grado di influenza sugli altri.
Sinteticamente si può affermare che gli elementi essenziali per ritenere sussistente il mobbing siano due:
Gli studiosi affermano che l’azione debba perpetrarsi almeno settimanalmente e per un periodo di almeno sei mesi.
Di recente, tuttavia, si sta affermando la sussistenza di mobbing anche in situazioni diverse, dal momento che, come da più parti rilevato, né la cadenza settimanale, né il limite di sei mesi costituiscono soglie minime scientificamente provate.
Se è vero che occorre distinguere tra mobbing e fisiologico conflitto lavorativo e che, di conseguenza, non si possa ravvisare mobbing nelle ipotesi in cui vi sia stato un singolo episodio o un limitato numero di episodi circoscritti nel tempo, è innegabile che debba ricondursi alla fattispecie anche la situazione in cui l’azienda, determinata ad isolare ed eliminare un lavoratore divenuto scomodo, attui una strategia particolarmente aggressiva e che non lasci respiro allo stesso, ad esempio, attuando vessazioni e pressioni pressochè quotidianamente.
Si può parlare, a seconda dei casi, di “quick mobbing” o di “sasso nello stagno”.
Nella prima ipotesi, le azioni vessatorie hanno un particolare grado di intensità e frequenza; nel secondo caso, vi è una singola azione ostile, accompagnata o seguita da altre azioni ostili “di supporto”, poste in essere anche da soggetti diversi.
I comportamenti vessatori o ostili possono assumere molteplici forme e può anche accadere che le condotte siano di per sé legittime, ma che acquistino una valenza persecutoria, perchè perpetrate per lunghi periodi e/o del tutto ingiustificatamente.
Si legge in Accertare il mobbing, edito da Giuffrè: «tutto quanto può contribuire a “far saltare i nervi” o, comunque, ad umiliare una persona può costituire utile materia per il mobbing».
Come già abbiamo rilevato, il mobbing si manifesta, si sviluppa e si concretizza con vere e proprie strategie, per lo più di lunga durata ma, a volte, anche solo occasionali, con il preciso intento di colpire la vittima, ridurre la sua capacità di resistenza, mortificarla e, quindi, distruggerla.
Tra le modalità più usuali possiamo annoverare: l’assoluta indifferenza nei confronti della vittima; le continue critiche al suo operato; l’assegnazione di compiti dequalificanti o inutili o, al contrario, troppo difficili o impossibili da svolgere; la privazione di spazi e strumenti di lavoro e/o di collaboratori; l’esclusione da fonti di informazione o da notizie utili per il suo lavoro; lo spostamento di sede; l’alimentazione di pettegolezzi, compromettendo l’immagine personale e professionale del lavoratore, l’assiduità nei controlli fiscali della malattia (c.d. “visite a pioggia”), la sottoposizione a contestazioni disciplinari pretestuose e ravvicinate nel tempo.
Si distingue tra mobbing verticale e mobbing orizzontale.
Nel primo caso, il comportamento è posto in essere dal datore di lavoro, ovvero da un suo subalterno, nei confronti dei sottoposti gerarchicamente ed è, generalmente, attuata mediante una condotta sistematica, tesa a disincentivare, demotivare, colpire ed umiliare un dipendente per ridimensionarne il ruolo, per costringerlo ad accettare situazioni di per sé inaccettabili, ovvero addirittura per costringerlo a rassegnare le dimissioni.
Negli ultimi tempi, si va diffondendo la nozione di “mobbing strategico”, con ciò indicando quella serie di azioni poste in essere dalle aziende per finalità inerenti l’organizzazione imprenditoriale, quali, ad esempio, il ricambio generazionale, ovvero il contenimento dei costi.
Il mobbing orizzontale, invece, si verifica tra colleghi di pari livello.
Le motivazioni, in quest’ultimo caso, sono per lo più personali: l’invidia, il disprezzo, la gelosia, l’antipatia.
Talvolta si è anche parlato di mobbing ascendente: vi sono stati casi in cui, infatti, gli atteggiamenti ostili e vessatori vengono esercitati da un gruppo di subalterni sul superiore gerarchico,per boicottarne le iniziative o per metterne in discussione l’autorità o la leadership.
In ogni caso, normalmente, i mobbers non sono soggetti affetti da patologie o dal carattere particolarmente aggressivo: nella maggior parte dei casi, essi sono soggetti del tutto normali, che agiscono o reagiscono in modo deplorevole o distruttivo nei confronti di chi ritengono potenzialmente migliore di loro, o antieconomico o, ancora scomodo.
Ege distingue il mobber intenzionale da quello casuale, mentre Huber, individua più categorie: il mobber istigatore, quello casuale, il collerico, il megalomane ed il frustrato.
Si parla di side mobbers con riferimento a coloro i quali, assistendo a condotte mobbizzanti, preferiscono tacere ed assistere impassibili alle vessazioni, diventando complici ed assumendo, quindi, un ruolo importante nella vessazione.
Non è facile individuare una serie di caratteristiche comuni ai soggetti che diventano vittima dei mobbers.
Assolutamente illuminante è quanto, a questo proposito, ha scritto il Dottor Renato Gilioli: «la vittima di molestie morali sul lavoro non è necessariamente una persona dal carattere debole, un “perdente nato”. Anzi, negli ambienti di lavoro piatti, dove c’è una sorta di complicità tra mediocri finalizzata a non creare competizioni, a volte ad essere colpito è il lavoratore più billante, capace e creativo, quello che si mette in luce. Spesso è soltanto l’ultimo arrivato, colpevole di aver rotto una precedente dinamica di clan molto chiusa. Talvolta è una persona originale, che non accetta gli standard del gruppo, che si veste in modo eccentrico, che ha idee politiche o convinzioni religiose particolari. Ancora, a volte è il lavoratore onesto, quello che non accetta regole clientelari e paramafiose che vigono nel gruppo; altre volte è quello che fa parte di un vecchio nucleo di potere interno all’azienda, sciolto e frammentato dopo la vittoria dell’altra cordata; in alcune occasioni è quello che ha inclinazioni sessuali diverse, in altre è il disabile con handicap fisici, psichici o sensoriali.ma Leymann racconta persino il caso di una disegnatrice svedese mobbizzata perché troppo bella e per questo invidiata. L’esperienza dimostra che, nella maggior parte dei casi, comunque, il bersaglio è un lavoratore con un forte investimento psicologico sul lavoro, che ama la sua professione e proprio per questo vive con maggiore dolore una condizione di emarginazione. Sarebbe quindi un grave errore credere che la vittima sia per natura un sottomesso».
L’orientamento prevalente in giurisprudenza tende ad escludere la rilevanza di preesistenti alterazioni psichiche.
Tuttavia, sul punto recentemente è intervenuta la Cassazione , la quale ha statuito che per fondare la responsabilità è necessario che la condotta dolosa o colposa, attiva od omissiva, dell’agente abbia avuto efficienza causale, anche soltanto a livello di concausa, nella produzione dell’evento dannoso.
In altri termini, occorre verificare cosa sarebbe successo se quella condotta non fosse stata posta in essere.
Quindi, non può essere addebitato all’agente quel danno che si sarebbe comunque verificato indipendentemente dal suo comportamento e, a maggior ragione, ciò che era preesistente.
Deve, invece, essergli addebitato il maggior danno, ovvero l’aggravamento: l’agente risponderà della differenza tra il danno che si sarebbe comunque verificato (o che era preesistente) e quello che, invece, è stato raggiunto.
È del tutto evidente che dovrà essere il Giudice, con l’ausilio del CTU a svolgere tale valutazione.
Generalmente, l’origine del mobbing risiede nella conflittualità fisiologica che caratterizza la quasi totalità degli ambienti lavorativi.
Il processo di attacco prende avvio, quindi, attraverso quei contrasti quotidiani, inizialmente di scarso peso, che man mano, diventano sempre più frequenti ed aggressivi.
E’ necessario, perciò, individuare dei criteri che consentano di distinguere in termini di ragionevole certezza le condotte da mobbing da quelle inevitabilmente conflittuali che appartengono alla ordinaria dinamica imprenditoriale.
In altri termini, è stato rilevato che, se è vero che l’azienda non deve trasformarsi in un luogo di mortificazioni, è vero anche che essa non sia «una casa di cura per lavoratori che sono o si atteggiano come delicati cristalli».
Pertanto, è di fondamentale importanza che si parli di mobbing solo laddove sussistano i requisiti soggettivi ed oggettivi di cui si è detto.
Spesso si afferma che obiettivo fondamentale del mobber sia quello di arrivare all’estromissione dal contesto aziendale della vittima.
Ebbene, senza dubbio questo è il motivo più frequente, ma è possibile anche che con l’atteggiamento vessatorio e persecutorio si tenda a costringere il mobbizzato ad accettare situazioni altrimenti inaccettabili: ritmi di lavoro particolarmente gravosi, lavoro umilianti, diminuzione della retribuzione o compensi irrisori, rinuncia al pagamento dello straordinario, trasferimenti in sedi disagiate o disagevoli, etc.
Certamente il mobbing c’è sempre stato in ogni settore lavorativo.
In ogni caso, la globalizzazione, la crisi ed il ristagno economico, lo spostamento delle produzioni nei paesi a basso costo di manodopera, la precarietà del posto di lavoro, le fusioni ed incorporazioni di grandi aziende con la conseguente duplicazione delle posizioni lavorative e la necessità, quindi, di gestire gli esuberi hanno aggravato il problema.
Tra gli ambienti a più alto rischio vi sono quelli in cui c’è un’organizzazione del lavoro scadente, con ambienti fortemente gerarchizzati, con un alto livello di competizione, con una confusa definizione delle mansioni e dei ruoli, con sovraccarico lavorativo.
Ci sono poi altri fattori che possono assumere rilevanza: la diversità di livello scolare e culturale tra i dipendenti, così come le differenze religiose e sociali.
Possiamo, in linea di massima, distinguere due tipologie di reazione a comportamento mobbizzante: uno improntato alla sottomissione passiva e l’altro alla reazione attiva.
La vittima che reagisce in modo passivo di solito inizialmente non si rende conto o, comunque, non vuole accettare di essere in una situazione di mobbing e tenta di far finta di niente, continuando normalmente la sua attività. Quando, col passare del tempo, si rende conto del mutamento del rapporto, continua a giustificare il comportamento dell’aggressore, pensando che quest’ultimo abbia dei problemi o, peggio, che abbia ragione, mettendo in dubbio sé stesso.
Succede spesso che il mobbizzato modifichi il proprio atteggiamento, divenendo addirittura servile.
Il lavoratore che reagisce in modo attivo, invece, appena raggiunta la consapevolezza di essere sotto tiro, cerca di opporsi a questa situazione, denunciando la scorrettezza del comportamento tenuto nei suoi confronti, raccogliendo prove, richiamando l’attenzione dei colleghi, in modo da avere degli alleati o, quanto meno, dei testimoni.
Tanto nel primo, quanto nel secondo caso, comunque, la conseguenza pressochè inevitabile è la perdita dell’efficienza lavorativa e della fiducia in sé stessi.
Il mobbing non è una malattia, ma è una condizione di estrema difficoltà lavorativa e, in quanto tale, può essere causa di sofferenze fisiche e psichiche più o meno gravi.
Ege scrive: «il mobbing non è una patologia, ma è una situazione. Non è un problema dell’individuo, ma un problema dell’ambiente di lavoro. Non è depressione, ansia, insonnia, gastrite, stress o quant’altro, ma è la spiegazione di questi disturbi. Il mobbing, insomma, non è l’effetto, ma è la causa».
Secondo Leymann, chi è sottoposto a mobbing, presenta un quadro sintomatologico assimilabile al disturbo post traumatico da stress, o ai disturbi dell’adattamento.
Tra i sintomi del primo caso, troviamo: disturbi del sonno, irritabilità, emicrania, difficoltà di concentrazione, ipervigilanza, traspirazione cutanea, ronzio auricolare, esagerate reazioni di allarme, disturbi generali del sistema nervoso vegetativo.
Tra i criteri diagnostici dei disturbi di adattamento troviamo: compromissione nel rendimento lavorativo o nelle attività sociali o nelle relazioni interpersonali; sintomatologia sproporzionata rispetto alla reazione normale allo stress.
Inoltre, il mobbing può causare anche disturbi psichici ed altre malattie, quali ansie, depressioni o situazioni paranoiche.
Tali pregiudizi possono essere circoscritti nel tempo, ovvero stabilizzarsi e perdurare, dando luogo ad una vera e propria patologia che si radica nella vittima con effetti tendenzialmente permanenti.
Contrariamente a quanto sostenuto da Leymann, Ege ritiene che difficilmente la vittima di una situazione conflittuale sul posto di lavoro possa riconoscersi come affetta da disturbo post traumatico da stress (PTSD) e questo sulla base di una semplice considerazione: affinchè possa ritenersi sussistente il PTSD è necessario che sussistano due condizioni:
La diagnosi di PTSD, sempre secondo il dottor Ege, è adatta a chi abbia assistito ad un incidente, ad un attentato, ad una guerra (la sindrome fu, infatti, elaborata studiando i disturbi psichici dei reduci del Vietnam).
Più idonea appare la diagnosi di disturbi dell’adattamento e, più precisamente, il disturbo post traumatico da amarezza, presentata da alcuni studiosi tedeschi.
Esso consiste in una reazione psicologica ad un evento di vita negativo e traumatico per il soggetto, il quale non si sente in pericolo di vita, ma lo avverte come una violazione dei suoi valori morali, determinando una sensazione di amarezza, rincrescimento, ingiustizia.
Sintomi tipici sono: ricordi intrusivi ricorrenti ed un progressivo e persistente peggioramento del malessere mentale.
Diagnosticare i postumi derivanti dal mobbing è particolarmente difficile.
Va, infatti considerato che la raccolta delle informazioni necessarie per la valutazione, da un lato, proviene dal soggetto stesso che ne lamenta la sussistenza e, dall’altro, appare di difficile acquisizione, posta la scarsa collaborazione dell’ambiente di lavoro.
Ci sono diverse proposte di elaborazione di protocolli diagnostici efficaci.
Interessante è il documento elaborato dall’INAIL (circolare n. 71/2003), il quale prevede una prima fase, in cui si esamina l’anamnesi pregressa ed attuale; l’anamnesi fisiologica; l’anamnesi patologica remota e prossima; indagini neuropsichiatriche; test psicodiagnostica; test proiettivi; diagnosi medico-legale e, infine, valutazione del danno biologico permanente.
Secondo l’Istituto, i disturbi psichici possono essere considerati di origine professionale solo se causati, o conclusati in modo prevalente, da specifiche e particolari condizioni dell’attività e/o dell’organizzazione del lavoro (c.d. costrittività organizzativa).
Purtroppo, va riferito che il TAR Lazio, con sentenza n. 5454 del 4 luglio 2005, ha annullato la circolare
Il centro MIMA- Movimento Mobbizzati Italiani ha elaborato un decalogo per resistere e contrastare il fenomeno o, quanto meno, per attrezzarsi nell’eventualità di dover agire giudizialmente a difesa dei propri interessi.
Tra i suggerimenti forniti, i più utili riguardano l’opportunità di raccogliere quanto più possibile materiale probatorio (documenti, corrispondenza, organigrammi etc); di formalizzare le proprie richieste, inviando le stesse, se possibile, a mezzo raccomandata o, comunque, per fax o e mail; chiedere ai colleghi la possibilità di citarli come testimoni (addirittura, sarebbe preferibile farsi rilasciare dagli stessi dichiarazioni scritte); non vergognarsi di chiedere aiuto; rivolgersi a specialisti.
Vale la pena di evidenziare che i Giudici danno ampia rilevanza alla certificazione medica e, quindi, tanto alle diagnosi, quanto alle prescrizioni farmacologiche.
il lavoratore mobbizzato può decidere di rivolgersi al Giudice per tutelare i propri interessi, con la possibilità di chiedere non solo un provvedimento che inibisca determinati comportamenti, ma che condanni il mobber al risarcimento dei danni subiti e subendi.
Inoltre, laddove il mobbizzato sia stato estromesso dall’azienda, sarà possibile invocare l’illegittimità del licenziamento e la conseguente reintegrazione o riassunzione nel posto di lavoro (a seconda delle dimensioni aziendali e, quindi, del numero di dipendenti).
Il procedimento dinanzi al Giudice del lavoro dovrà essere preceduto dall’istanza di convocazione delle parti dinanzi alla Commissione di Conciliazione istituita presso la Direzione Provinciale del Lavoro.
Nell’istanza –che andrà indirizzata alla Commissione ed alla/alle controparti- dovranno essere puntualizzate tutte le richieste che successivamente saranno avanzate con ricorso.
Tale Commissione dovrebbe convocare entro 60 giorni dal ricevimento della richiesta tanto il mobbizzato, quanto l’azienda ed eventualmente il mobber per espletare il tentativo di conciliazione.
Purtroppo, nella realtà di molte città italiane, tale convocazione non viene effettuata quasi mai nei termini. In ogni caso, decorsi i 60 giorni dal ricevimento dell’istanza, è possibile depositare ricorso giudiziale ex art. 414 cod. proc. civ., nella Cancelleria del Tribunale.
È opportuno precisare che il mobbizzato deve fornire ogni elemento utile per supportare le sue affermazioni: come già rilevato, dovrà produrre in giudizio tutti i documenti utili a ravvisare la sussistenza di azioni mobbizzanti (corrispondenza, documenti aziendali, organigramma, contestazioni disciplinari, etc.) e dovrà anche indicare i testi da ascoltare.
Inoltre, dovrà produrre la certificazione medica e una perizia stilata da un medico legale e/o da uno psichiatra.
Spetterà, infatti, al lavoratore provare non solo la sussistenza di un danno, ma anche il nesso di causalità tra il danno stesso e l’ambiente di lavoro.
C’è di più.
Recentemente, la Cassazione, chiamata a pronunciarsi in materia, in merito agli oneri probatori, ha ritenuto insufficiente che la prova del mobbing venisse fornita attraverso la dimostrazione della sussistenza di una pluralità di atti vessatori, seppure illegittimi, richiedendo la prova rigorosa circa l’esistenza di un programma cosciente e volontario, predisposto ed attuato al fine di perseguitare il dipendente (Cass. 4774/2006).
La vittima del mobbing diventa il bersaglio delle persecuzioni dei mobber che agiscono in modo tale da incidere profondamente sulla sua personalità, provocando la sua distruzione psicologica, professionale e sociale.
Il mobbizzato, nella maggior parte dei casi giungerà non solo ad allontanarsi dall’ambiente lavorativo, ma anche a rifuggire ogni aspetto della vita sociale extra professionale, con compromissione della sua vita di relazione.
Possiamo, quindi, affermare che il mobbing costituisca una fattispecie complessa, che comporta il coinvolgimento e la compromissione di diritti fondamentali non solo dell’individuo in qualità di prestatore di lavoro, ma anche della persona in quanto tale.
Le conseguenze del mobbing si ripercuotono tanto sulla salute del mobbizzato, quanto sulla sua professionalità e dignità, sulla produttività, sulla qualità del suo lavoro, sulla famiglia e sulla sua vita, anche extralavorativa.
Dal mobbing possono scaturire una serie di pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, risarcibili secondo gli schemi consueti della responsabilità civile contrattuale ed extracontrattuale.
Pertanto, chi ritiene di essere vittima de mobbing può chiedere la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali.
Il danno patrimoniale concerne le effettive perdite monetizzabili, tanto come danno emergente, che come lucro cessante.
Vanno ricomprese nel danno emergente: le spese mediche sostenute a causa della malattia e, in generale, tutte le spese sostenute in conseguenza del mobbing.
Invece, sono da considerarsi come lucro cessante i mancati guadagni e le c.d perdite di chances.
Sono non patrimoniali il danno biologico, il danno morale ed il danno esistenziale.
Quanto al danno alla professionalità, esso può essere di natura patrimoniale quando comporta un decremento del patrimonio della vittima, ovvero di natura non patrimoniale, quando la lesione colpisce beni non suscettibili di una valutazione economica.
È la lesione all’integrità psico fisica suscettibile di accertamento medico legale.
E’ il cosiddetto danno alla salute.
Questa categoria si caratterizza per due profili:
1) l’aspettostatico, cioè la violazione in sé considerata dell’integrità psicofisica e, quindi, il danno fisiologico vero e proprio;
2) l’aspetto dinamico: cioè le conseguenze negative della lesione sulla vita quotidiana della vittima.
Il danno biologico comprende il danno alla vita di relazione, il danno alla vita sessuale, il danno alla capacità lavorativa generica.
Esso può consistere in un danno permanente, valutato, in base ad una perizia medico-legale, in punti percentuali di invalidità, ovvero in un danno temporaneo, per il quale è sufficiente l’esistenza di riscontri oggettivi (quali la documentazione afferente il ricovero ospedaliero, la somministrazione di farmaci, la prescrizione di periodi di riposo).
Esso viene accertato mediante perizia (del perito di parte e, successivamente, nella maggior parte dei casi, da un CTU) e, una volta accertatane la sussistenza e l’entità, viene determinato nel suo ammontare mediante l’applicazione delle Tabelle predisposte dal Tribunale.
Nei Tribunali in cui non c’è stata la predisposizione di tabelle, di solito è prassi far riferimento alle tabelle di altri tribunali, tra le quali quella di Milano.
Queste tabelle tengono conto di vari parametri, quali l’età, il sesso, il costo della vita.
Con detto temine, si allude al dolore, alla sofferenza spirituale, ai perturbamenti dello stato d’animo, danno conseguenza della lesione sofferta dal soggetto offeso.
Come è stato da più parti osservato, le probabilità che la vittima non trag
ga una “scossa”, sia pur minima, dalla lesione subita, e la sua vita quotidiana non sia turbata dall’evento dannoso, risultano essere talmente ridotte che appare del tutto verosimile, secondo l’id quod plerumque accidit, che il danno morale esista nella generalità delle ipotesi di danno alla persona.
Il risarcimento del danno morale, nell’attuale sistema normativo, prescinde dalla sussistenza di un fatto qualificabile astrattamente come reato, essendo esclusivamente ricollegato alla lesione di interessi costituzionalmente garantiti.
La valutazione di questa tipologia è rimessa al Giudice, il quale dovrà far riferimento ad una serie di parametri, quali l’intensità del patema d’animo, il grado di sensibilità dell’offeso, il comportamento del danneggiante, la gravità della condotta, l’entità del danno biologico, etc.
Di solito, il risarcimento del danno morale è calcolato in una somma compresa tra ¼ ed ½ del danno biologico.
Il riconoscimento del danno esistenziale si inserisce nella più generale tendenza, manifestata con vigore negli ultimi anni dalla giustizia di merito e di legittimità, ad una maggiore attenzione verso i temi della famiglia (legami parentali, potestà dei genitori, vincoli di solidarietà familiare) e delle relazioni sociali della persona.
Esso è dato nel pregiudizio ingiusto, consistente nella lesione della personalità della vittima, della sua dignità, della sua integrità morale, ovvero il suo diritto ad essere rispettato e non, invece, ad essere umiliato, diritto che è riconosciuto anche dall’art. 2 Cost. e dall’art. 41, co. 2 Cost.
Nel danno esistenziale le manifestazioni esteriori sono rappresentate dalle modificazioni del vivere la vita quotidiana, vale a dire quel non fare più quello che si faceva prima a causa di un illegittimo comportamento che abbia compromesso la stabilità del quotidiano.
La mera frustrazione prodotta dal fatto, con il suo carico di speranze e aspettative vanificate, di affetti e relazioni umane messi in discussione, può riverberarsi –anche nel lungo periodo– sulla quotidiana esistenza dell’individuo, a prescindere da un danno fisico accertabile, integrando una «lesione in sé» e tale pregiudizio, in quanto efficace, ingiusto e causalmente riconducibile al fatto, legittima la richiesta di risarcimento.
Si tratta, in ogni caso, di un danno autonomo, ontologicamente diverso dal danno biologico, dal danno morale e, naturalmente, dal danno patrimoniale, ma con essi cumulabile, ai fini della determinazione del quantum complessivamente risarcibile.
Il danno esistenziale sussiste a prescindere da lesioni concrete (a differenza del danno biologico), sussiste altresì al di là di una incidenza del fatto-evento su una prospettiva reddituale (a differenza del danno patrimoniale) e sussiste infine anche in assenza di comportamenti penalmente rilevanti.
La valorizzazione monetaria è di solito effettuata da Giudice in via equitativa.
Vi sono casi in cui, pur essendo stata accertata la sussistenza del mobbing, la vittima non abbia alcuna lesione alla salute, ma riporti solo ripercussioni sulla sua vita privata: ad esempio lamenti una diminuzione dell’interesse alla vita, abbia perso fiducia in sé stesso, abbia subito compromissioni nella sua vita familiare e/o sociale.
In questi casi, si parla di danno da mobbing e, ormai unanimemente, lo si riconduce al danno esistenziale.
Si esamina, innanzitutto, il contesto sociale e familiare del paziente, chiedendo allo stesso di raccontare la propria vita, fornendo dettagli sulla propria famiglia d’origine, sugli studi, sui rapporti amicali e sui precedenti rapporti lavorativi;
Successivamente, si passa al racconto della situazione aziendale, cercando di arrivare a definire il periodo iniziale del rapporto prima dell’insorgenza dei problemi, il periodo in cui gli atteggiamenti vessatori hanno cominciato a manifestarsi e, infine, la situazione attuale.
Vengono poi compiuti accertamenti psicodiagnostica, con la somministrazione di test.
Infine, vengono analizzati e studiati i nessi di causalità o concausalità sulla base dei dati raccolti.
E’ del tutto fuor di dubbio che il Giudice, chiamato ad accertare e dichiarare la sussistenza di lesioni psico-fisiche derivanti da mobbing abbia la necessità di avvalersi di un perito che abbia cognizioni tecniche specifiche.
Il CTU, pertanto, è l’ausiliario del Giudice ed integra l’opera di questi.
Pertanto, egli è o, quanto meno, dovrebbe essere, un arbitro imparziale chiamato a sostituire il Giudice in una valutazione tecnica e specifica che esula dalla competenza squisitamente giuridica: deve operare in modo equo ed obiettivo, avvalendosi degli atti del processo, delle argomentazioni difensive di entrambe le parti e dei verbali d’udienza, tenendo conto esclusivamente di quei fatti che risultino già provati o, comunque altamente verosimili.
È del tutto frequente che il disagio del mobbizzato si ripercuota nell’ambito familiare: è proprio all’interno della famiglia che egli dapprima cercherà consigli e, con il passare del tempo, sfogherà la propria rabbia, l’insoddisfazione e le frustrazioni accumulate nel posto di lavoro.
La famiglia assorbirà tutto ciò ma, a lungo andare, è assolutamente probabile che entrerà in crisi,
Ege ha definito lo straining come «una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer). Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante».
Si differenzia dal mobbing, in quanto manca il requisito della frequenza delle azioni mobbizzanti.
In altri termini, mentre il mobbing è caratterizzato da una serie di azioni ostili, continue e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo.
Per esempio, non deve parlarsi di mobbing, bensì di straining nel caso in cui il lavoratore lamenti solo ed esclusivamente il demansionamento, ma non deduca o provi la condotta vessatoria reiterata nel tempo e sistematicamente attuata.
È indubbio che, anche dallo straining, possano derivare danni patrimoniali e non patrimoniali.
Pur essendo ormai riconosciuta la rilevanza del fenomeno, non è semplice rinvenire dati aggiornati sulla reale consistenza dello stesso.
Secondo il monitoraggio sul fenomeno mobbing in Italia effettuato dall’ISPESL, (l'Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro), i lavoratori vittime del mobbing sono circa un milione e mezzo su 21 milioni di occupati.
Parimenti, nella sola Clinica del Lavoro di Milano si è passati da 194 pazienti mobbizzati nel 1997 a 674 nel 2005.
La percentuale delle vittime è più alta al Nord e pare che il fenomeno colpisca in prevalenza le donne (52%).
Si può affermare che il mobbing sia particolarmente frequente nel settore dell’industria di produzione di beni e servizi e nella Pubblica Amministrazione e che, comunque, esso sia più diffuso nelle aziende con oltre 100 dipendenti.
La c ategoria più esposta è quella degli impiegati diplomati, soprattutto nei settori amministrativi e nei reparti dei servizi.
Per quanto concerne l’età, sembra che il maggior numero di vittime abbia tra i 41 ed i 50 anni.
Per ciò che concerne la durata delle azioni mobbizzanti , il 40% dei casi ha durata da un anno a due anni; il 30% dei casi oltre due anni; il 27% dei casi da sei mesi a un anno.
Infine, l’Ispesl ha riscontrato che il mobbing abbia un costo molto elevato per il datore di lavoro, posto un calo della produttività del lavoratore di circa il 70%.
Nell’Unione europea le persone vittime di vessazioni sul posto di lavoro sono circa 12
Milioni, pari all’8% degli occupati.
In testa alla classifica dei paesi dove più numerosi sono i casi di mobbing si pone l’Inghilterra con il 16,3%, segue poi la Svezia con il 10,2%, la Francia con il 9,9%, Irlanda al 9,4%, la Germania con il7,3%. L’Italia con il suo 4%, si pone al di sotto della media europea.
Ancora oggi manca una normativa specifica sul tema.
Sinteticamente, può affermarsi che, in ambito civilistico, le norme più importanti cui far riferimento per fondare le proprie ragioni in via giudiziale siano:
Cassazione Sezioni Unite Civili, 4 maggio 2004 n. 8438 : Il mobbing verticale in danno del dipendente, attuato mediante dequalificazione e collocazione in ambiente insalubre, costituisce un’inadempienza contrattuale per violazione degli articoli 2087 e 2103 cod. civ.
Cassazione Sezione Lavoro 23 marzo 2005, n. 6326: Il giudice del merito ha accertato non solo il demansionamento del lavoratore, ma anche che vi era stato un “globale comportamento antigiuridico”, consistito in una serie di comportamenti ed episodi, verificatisi nell’ambito lavorativo, denunciati e sostanzialmente confermati nell’ambito dell’istruttoria espletata. Da questa era emersa una situazione lavorativa quanto mai difficile per il dipendente, continuamente soggetto a scherzi verbali, azioni di disturbo, via via appesantitisi nel tempo e di cui era a conoscenza il superiore gerarchico, il quale non si adoperò perché cessassero… la disciplina del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell’ordinamento civile (art. 117, II co. Cost) e, comunque, non può non mirare a salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt. 2 e 3 Cost).
Cassazione Sezione Sesta Penale, 21 settembre 2006 n. 31413 : Il responsabile di atti di “bossing” può essere condannato alla reclusione per violenza privata se minaccia un dipendente per indurlo ad accettare un trattamento peggiorativo. Per la sussistenza del fenomeno occorre che diverse condotte, alcune o tutte di per sé legittime, si ricompongano in un unicum, essendo complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore. Ciò non toglie, ovviamente, che tali condotte, esaminate separatamente e distintamente, possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato.
Cassazione Sezione Lavoro, 6 marzo 2006 n. 4774 : Il mobbing si verifica allorché il datore di lavoro tiene una condotta sistematica e protratta nel tempo, che determina, per le sue peculiarità, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art. 2087 cod. civ.; tale illecito, si può realizzare indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Il mobbing può realizzarsi con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall'inadempimento di specifichi obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata - procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi - considerando l'idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa.
Corte di Cassazione sezione lavoro 6 marzo 2006, n. 4766: Quando il lavoratore lamenti una dequalificazione o un demansionamento o, comunque, un inesatto adempimento da parte del datore di lavoro, è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari, ovvero in base al principio generale di cui all’art. 1218 c.c.
Cassazione 26 giugno 2006, n. 14729 : In caso di accertato demansionamento professionale, in violazione dell’art. 2013 cod. civ. il giudice del merito può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto, relativi alla qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione ed alle altre circostanze del caso concreto.
Cassazione Sezione Lavoro 25 settembre 2006, n. 20804: In tema di risarcimento dei danni da demansionamento, il lavoratore deve provare non solo l’inadempimento del datore di lavoro per violazione del divieto di dequalificazione, desumibile dall’art. 2103 cod. civ. e per violazione dell’obbligo di tutela dell’integrità del lavoratore, desumibile dall’art. 2087 cod. civ., ma deve anche allegare e provare il danno professionale di contenuto patrimoniale che assume di aver subito (consistente nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita, ovvero dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero ancora nella perdita di chance) e il danno biologico, consistente nella lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, derivante dall’inadempimento contrattuale, nonché il rapporto causale dei predetti danni dalla condotta illecita del datore di lavoro.
Cassazione Sezione Lavoro 29 settembre 206, n. 21123: Sebbene le scelte editoriali del direttore non siano sindacabili, l’azienda non può esimersi dal rispetto degli obblighi sanciti dall’art. 2103 c.c. Pertanto, in caso di mutamento dell’incarico, le nuove mansioni attribuite al giornalista (al pari di qualsiasi altro lavoratore dipendente) dovranno essere equivalenti a quelle svolte in precedenza. L’equivalneza deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale della mansioni considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l’arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore, acquisito nella pregressa fase del rapporto. Né la tutela della professionalità può essere sacrificata per ragioni tecniche, produttive ed organizzative dell’azienda.
Cassazione Sezione Lavoro 4 aprile 2007, n. 8475 : La sottrazione parziale o totale della mansioni comporta certamente un danno da perdita di esperienza professionale, incidente sul patrimonio, sia pure non esattamente determinabile nel suo ammontare.
Corte d’Appello di Milano, 21 giugno 2006 : Il mobbing, ravvisabile anche in forma collettiva, richiede una condotta sistematica e protratta nel tempo, volta ad estromettere il lavoratore dal luogo di lavoro. Gli scontri tra colleghi, talvolta anche sgradevoli, non sono atti rivelatori di una vera e propria persecuzione, ma rientrano –nella fattispecie in esame- nella normale fisiologia dei conflitti nell’ambiente lavorativo.
Tribunale Milano, 30 giugno 2006 , Rel. Dottor Atanasio: Requisito fondamentale per ritenere sussistente il mobbing è l’aggressione psicologica, e ciò tanto che essa sia effettuata con comportamenti atipici, quanto che sia posta in essere mediante atti tipici, o con gli e gli altri insieme. Inoltre detta aggressione deve essere sistematica, reiterata e compiuta per un apprezzabile periodo di tempo».
Tribunale di Milano Sezione Lavoro II grado, 26 novembre 1999 : L’inattività cui un giornalista è costretto dall’editore si riflette in modo elevato e difficilmente prevedibile sul suo futuro nel settore, anche in vista di opportunità successive al raggiungimento dell’età pensionabile, delle quali egli ha diritto di poter usufruire; tale lunga e forzata inattività, inoltre, vulnera valori, anzi diritti, di natura non patrimoniale, in particolare quello alla dignità. Questa sentenza è stata confermata in appello ed in Cassazione.
Tribunale di Bergamo, 20 giugno 2005: Il demansionamento di un dipendente, protrattosi per lungo tempo, ma non accompagnato da altri comportamenti ostili configura condotta di straining e non di mobbing, fonte del diritto della lavoratrice di ottenere il risarcimento del danno alla professionalità, del danno biologico e del danno morale.
Tribunale di Roma, 28 marzo 2003, La condanna del datore di lavoro per mobbing non può prescindere dall’accertamento dell’elemento soggettivo del dolo del c.d. mobber, il quale coincide con la specifica intenzione di discriminare e vessare il mobbizzato sino ad esercitare nei suoi confronti una vera e propria forma di violenza morale.
Con riferimento al fenomeno del mobbing nell’ambito giornalistico, assolutamente interessante è il libro “Il lavoro perverso” (Capua, Di Napoli e Frenda) in cui si fa riferimento alla redazione come ad una fabbrica di sofferenza.
Le aziende giornalistiche, infatti, spesso devono cercare di mantenere l’equilibrio tra le novità editoriali e la necessità di tenere in vita i giornali cartacei, cercando di ridimensionare i costi e gli organici.
Ciò avviene con ogni mezzo: mancato rispetto dei ruoli, cambio di mansioni e trasferimenti.
Non solo.
La tendenza, diffusasi già dagli anni novanta, è “allo svecchiamento”: si sostituiscono giornalisti professionisti, preparati, corretti ed obiettivi, con lavoratori precari, con cosiddetti “instant expert”, generalisti, improvvisatori e fantasisti, da pagare, se del caso, dai 3 ai 10 euro a pezzo.
Questo è quello che viene definito mobbing strategico: il turn over è continuo e non importa a nessuno se cala la qualità del giornale, se non vengono più effettuate inchieste, se l’articolo altro non è se non la riproposizione pedissequa dei comunicati stampa forniti da questa o da quell’azienda.
Ma cosa succede quando il “vecchio”professionista non accetta di essere liquidato con un più o meno consistente incentivo all’esodo? Molto semplicemente, chi resiste viene progressivamente emarginato dall’editore, gli vengono commissionati sempre meno servizi, o quelli che gli vengono richiesti non vengono pubblicati; vengono ignorate le sue proposte, il lavoro prima di sua competenza viene affidato ad altri colleghi, senza fornire alcuna spiegazione.
Nessuna spiegazione verrà data ed anche il sindacato, il più delle volte, rimarrà inerte.
Oggi tutti sanno dell’esistenza del mobbing, ma i giornalisti variamente vessati continuano, nella maggior parte dei casi, a vivere il proprio dramma esistenziale in assoluta solitudine.