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FAQ Privacy
Qual è la legge regolatrice della privacy?
Cosa si intende per dato sensibile?
Quale è il rapporto fra il diritto all’informazione e il diritto alla privacy?
In quali ipotesi il diritto di cronaca prevale sul diritto alla privacy?
Cosa avviene in caso di pubblicazione di intercettazioni illegalmente acquisite?
Qual è la disciplina relativa alle intercettazioni legittime ma non pubblicabili?
I giornali possono pubblicare le foto delle persone indagate?
Come regolarsi nel riferire lo stato di salute di una persona?
Come devono essere trattati i dati personali concernenti la salute?
E’ lecito utilizzare artifici nella raccolta delle notizie?
E’ lecito pubblicare le immagini avendo ricevuto un consenso implicito o presunto?
Si possono pubblicare immagini private di persone note nel proprio domicilio?
Si possono pubblicare fotografie che ritraggano sconosciuti in compagnia di personaggi pubblici?
Come regolarsi nel pubblicare immagini di minori?
E’ possibile la pubblicazione di e-mail private senza consenso?
E’ lecito pubblicare i dati fiscali dei contribuenti?
Il termine privacy è onnipresente, dobbiamo quotidianamente farci i conti. Parola inglese traducibile all’incirca con riservatezza, altri non è che il diritto alla segretezza delle informazioni personali e della propria vita privata. La privacy è un diritto fondamentale ormai riconosciuto dall’ordinamento giuridico di tutti i paesi europei e delle principali nazioni del mondo. Si tratta di una situazione giuridica che disciplina il modo in cui una persona vive in società nei confronti delle altre persone. Proprio per questo motivo il concetto stesso di privacy ed il suo significato nel corso degli anni hanno subito profondi mutamenti, in relazione al mutare della società e degli strumenti tecnologici utilizzati comunemente. Con l’affermazione delle moderne tecniche di comunicazione e la facilità di diffusione e duplicazione delle informazioni si è compreso che non è più sufficiente proteggere il diritto “ad essere lasciati in pace” e a non subire intromissioni non gradite nella propria vita privata.
Diveniva, quindi, sempre più importante evitare che le altre persone potessero abusare delle informazioni riferite ad un soggetto, raccogliendole a sua insaputa e utilizzandole per finalità non consentite. Per questo motivo oggi la privacy ha esteso il suo significato diventando uno strumento giuridico per garantire anche questa specifica situazione. Il punto fermo di questa evoluzione è che ogni persona è titolare del diritto di disporre dei dati che la descrivono e che ne qualificano l’individualità.
Su tali motivazioni si fonda il Codice in materia di protezione dei dati personali, contenuto nel D.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, che riunisce - per la prima volta - tutto l’iter normativo della materia. Entrato in vigore nel 2004, esso segna una tappa fondamentale nel quadro delle garanzie poste a tutela dell’individuo. Il Codice garantisce prima di tutto che ”il trattamento dei dati si svolga nel rispetto nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’ interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali”. Il trattamento dei dati personali è disciplinato assicurando un alto livello di tutela dei diritti e delle libertà e nel rispetto dei principi di semplificazione, armonizzazione ed efficacia.
Per di più, è stato introdotto il principio di necessità nel trattamento dei dati, in altre parole, i sistemi informatici sono configurati riducendo al minimo l’utilizzazione di dati personali e di dati identificativi.
Il nuovo Codice ribadisce diversi principi: i dati personali devono essere trattati in modo lecito e secondo correttezza e raccolti per finalità esplicite, legittime e determinate. Poi, stabilisce che il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato. Inoltre, nel nuovo Codice è previsto che il trattamento e quindi la comunicazione di dati personali effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali sia soggetto all’applicazione delle disposizioni sulla Privacy solo se i dati sono destinati ad una comunicazione sistematica.
La privacy è divenuta così il diritto ad esercitare un controllo sulle informazioni che ci riguardano. In questo senso consiste: 1) nel diritto di sapere che qualcun altro sta raccogliendo informazioni sul proprio conto e per quale finalità desidera utilizzarle; 2) nel diritto di decidere se si vuole consentire questa raccolta ed utilizzo o se si preferisce negare il consenso.
Da questa evoluzione del concetto di privacy deriva l’attuale legislazione in materia di dati personali.
Quando si parla di privacy, quindi, non si fa riferimento solo al diritto alla riservatezza, ma anche al diritto di scelta circa l’uso che si vuole gli altri facciano dei propri dati personali.
Secondo la normativa vigente all’art. 4 comma 2 D.Lgs. 196/03 il dato personale è “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente o associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”. Dato personale è anche un’immagine, un suono e qualunque notizia o informazione che sia riferibile ad un soggetto determinato o determinabile. Dato personale è, quindi, qualsiasi informazione riferita ad una persona.
Una categoria particolare di dati personali sono i dati sensibili: si tratta di dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. Secondo la definizione data dall’art. 4 comma 4 D.lgs 196/2003, la qualità di dato sensibile è collegata alla idoneità del medesimo a costituire strumento di conoscenza; in altri termini non è tanto il dato personale ad essere in sé sensibile, quanto, piuttosto, l’uso del dato stesso che un soggetto possa farne. Questa tipologia di dati è sottoposta ad un livello di protezione più elevato di quello previsto per i dati non sensibili.
Sempre più il giornalista si sta profilando come una tra le figure professionali coinvolte dall’avanzare di internet, anche da un punto di vista deontologico.
Un soddisfacente equilibrio nel delicato rapporto tra diritto di cronaca e protezione della sfera di riservatezza dei singoli si trova nei 13 articoli che compongono il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il cui testo definitivo è stato consegnato dal Consiglio nazionale dell’ Ordine dei giornalisti all’Ufficio del Garante della privacy e adottato con provvedimento del 29 luglio 1998.
Oggi il Codice deontologico assurge a norma primaria, il suo peso è notevolmente aumentato, essendo stato inserito come allegato nel testo del nuovo Codice sulla privacy. L’obbligatorietà del codice, non opera, come invece per i codici di autoregolamentazione, per effetto di un atto volontario di adesione a quelle regole, ma a seguito di un fatto che impone che chiunque arrivi a trovarsi in una determinata condizione debba rispettarlo. I contenuti del codice deontologico non vanno disancorati dalla trama di principi, valori, regole di comportamento e leggi vigenti in materia di attività giornalistica, anzi, ne rappresentano il completamento. Il documento è una sorta di guida pratica che cerca di fornire indirizzi e risposte ad alcuni problemi spinosi che le redazioni si trovano ad affrontare. La finalità del Codice deontologico è quella di contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all’informazione e con la libertà di stampa, inoltre, ribadisce il divieto di sottoporre la professione giornalistica ad autorizzazioni o censure.
Il settore giornalistico subisce continue evoluzioni legislative e necessita di un continuo aggiornamento sulle problematiche legislative. La figura del giornalista, deve quindi confrontarsi con un proliferare di norme che, da un lato, forniscono utili strumenti, ma dall’altro impongono dei limiti.
Ed è proprio per questo che la Corte di Cassazione in materia di privacy e di doveri imposti ai giornalisti, con sentenza 14 aprile 2008 n. 16145, ha precisato che il codice deontologico dei Giornalisti è “un atto di natura normativa ed è, pertanto, vincolante ed applicabile all'attività giornalistica per verificane la correttezza del trattamento dei dati personali ed, in particolare, di quelli relativi alla salute ed alla sfera sessuale, indipendentemente da un richiamo contenuto in norme di legge”.
Ormai è acquisito dalla coscienza collettiva un diritto all’autodeterminazione informatica, inteso come potere delle persone di governare e controllare il flusso delle informazioni che le riguardano. Tale principio, deve bilanciarsi con la libertà d’espressione. Tale equilibrio sotto il profilo del diritto di cronaca per quanto riguarda i personaggi pubblici è molto labile. Lo si sottolinea nella Dichiarazione che il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha approvato a Strasburgo nel 2004 (Dichiarazione sulla libertà del discorso politico nei media), sottolineando che i particolari della vita privata delle figure pubbliche e dei loro familiari non devono essere rivelati, a meno che tali informazioni non siano direttamente pertinenti in quanto gettano luce sulle modalità con cui tali figure pubbliche svolgono le funzioni alle quali sono state chiamate.
Su questa lunghezza d’onda la Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza n. 59320/00 del 2004, ha dato ragione a Carolina di Monaco contro la Germania, giudicando contraria all’art. 8 della Convenzione europea del 1950 la pubblicazione, su giornali tedeschi, di diverse fotografie scattate alla principessa in cerimonie non ufficiali in Francia. La Corte ha chiarito in quella pronuncia che “bisogna distinguere tra un reportage che riguarda avvenimenti che contribuiscono a un dibattito in una società democratica riguardanti personalità politiche, nell’esercizio delle funzioni ufficiali, e un reportage sui dettagli della vita privata di una persona che, non svolge una funzione pubblica” concludendo che in questo caso non esiste il requisito dell’interesse pubblico alla notizia, ragion per cui quelle foto non avrebbero dovute essere pubblicate.
E’ bene sottolineare che la stessa Corte, interpellata da un’insegnante siciliana (pertanto persona non famosa) - fermata e posta agli arresti domiciliari con l’accusa di associazione a delinquere, evasione fiscale e falso, la cui fotografia, scattata durante le indagini, era stata diffusa nel corso di una conferenza stampa dalle forze dell’ordine e quindi pubblicata su diverse edizioni di due quotidiani locali - con sentenza 50774/99 del 2005 ha stabilito che ““la trasmissione agli organi di stampa di fotografie di una persona accusata in un procedimento penale costituisse violazione di quell’articolo” ovvero dell’art. 8 della Convenzione Europea del 1950 “e, pertanto, la condanna dello Stato italiano a risarcire l’insegnante delle spese processuali”.
E’ pacifico in giurisprudenza (cfr. Cass. n. 5259/1984; n. 3679/98; n. 4285/98; n. 8574/98; da ultimo n. 6041/2008) che l’esercizio della libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti, cioè il diritto di stampa, sancito in linea di principio nell’art. 21 della Cost. e regolato dalla legge del 1948 n. 47, è legittimo e quindi può anche prevalere sul diritto alla riservatezza "se i fatti sono veri, di interesse pubblico e se sono esposti in forma civile e corretta.” (Cassazione 5658/98)
In difetto anche di una sola di queste condizioni il diritto al rispetto della vita privata deve prevalere su quello di cronaca.
In conclusione: il diritto di cronaca prevale su quello alla vita privata solo se ricorrono contemporaneamente le condizioni sopradette.
In ogni caso il giornalista deve rispettare il codice deontologico e fornire sempre l’informativa all’interessato prima di raccogliere e utilizzare notizie che lo riguardano.
La materia relativa alle intercettazioni penali, ruota intorno a principi di portata costituzionale, quali l’esigenza processuale di non inquinare le prove, la tutela della privacy delle persone coinvolte ed il diritto dei cittadini ad essere informati sui fatti di cronaca giudiziaria. Le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni costituiscono, nel processo penale, un mezzo di ricerca della prova, risultando spesso decisive per fondare il giudizio del giudice. Anche se tra i principi inviolabili della costituzione è sancita la libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, è la stessa carta costituzionale a stabilire che la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.
L’ipotesi più grave di divulgazione di intercettazioni telefoniche o telematiche si verifica in caso di pubblicazione di documenti, supporti o atti riguardanti dati e contenuti di conversazioni e comunicazioni, relativi al traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti. La recente legge del 20 novembre 2006 n. 281, ha sancito che, in caso di diffusione degli stessi, può essere richiesta a titolo di riparazione, all’autore della pubblicazione degli atti o dei documenti, al direttore responsabile e all’editore, una somma di denaro determinata in ragione del numero di copie stampate. In ogni caso, l’entità della riparazione non può essere inferiore a diecimila euro. Tale azione non impedisce al Garante per la protezione dei dati personali di emanare i provvedimenti volti ad inibire l’illecita diffusione. I responsabili possono, inoltre, vedersi condannare dal giudice civile al risarcimento dei danni eventualmente patiti a seguito della pubblicazione illecita.
E’ il caso di intercettazioni acquisite legittimamente e tuttavia può essere vietata la pubblicazione. In particolare è vietata la pubblicazione, ai sensi dell’art. 114 del c.p.p., con il mezzo della stampa o altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto. Quando l’atto non è più coperto dal segreto, è sempre consentita la pubblicazione del suo contenuto, ma continua ad essere vietata la pubblicazione anche parziale dell’atto stesso fino a che non siano concluse le indagini preliminari. A tale proposito importante è il disegno di legge del Governo approvato dalla Camera de deputati nella seduta del 17 aprile 2007; in particolare è stato aggiunto il comma II bis all’art. 114 del c.p.p. che stabilisce:”E’ vietata la pubblicazione, anche parziale, della documentazione, degli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, anche se non più coperti da segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari”. Se il disegno di legge dovesse divenire legge, prima di quel momento non sarà più possibile conoscere neanche il contenuto degli atti di intercettazione.
In tema di trattamento dei dati personali, la pubblicazione dell’immagine di un imputato (che costituisce dato personale) da parte di un giornale è pienamente lecita e, quando è effettuata in relazione ad un fatto di interesse pubblico - quale è sicuramente l’informazione su fatti delittuosi - va considerata essenziale per l’esercizio del diritto di cronaca. In particolare, la pubblicazione di tali fotografie incontra solo il limite del dettato dell’art. 114 cod. proc. pen. (e dall’art. 8 del codice deontologico dei giornalisti), che le vieta solo se si riferiscono a persona privata della libertà personale, mentre si trova sottoposta all’uso di manette o di altro mezzo di coercizione fisica. In applicazione di tale principio, la Corte di cassazione civile, con sentenza del 14 febbraio 2008 n. 7261, ha statuito che “La rivelazione dell'immagine di un imputato, che costituisce un dato personale, è da porsi sotto il medesimo profilo della comunicazione delle generalità dello stesso. Tale pubblicazione, quando è effettuata in relazione ad un fatto di interesse pubblico (nel caso di specie l'informazione su eventi delittuosi) va ritenuta essenziale all'espletamento del diritto di cronaca. L’art. 114 c.p.p. stabilisce che è vietata la pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà personale “ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta”.
La foto di un imputato in stato di arresto con le manette ai polsi, se ritrae il predetto in una posa in cui non sono visibili le manette, non incontra alcun divieto normativo alla sua pubblicazione e deve quindi ritenersi lecita senza che la stessa possa considerarsi inessenziale rispetto all'informazione”.
Sulla validità del riferimento al codice deontologico (dei giornalisti) la Sentenza ha fatto rinvio al precedente n. 11864 del 2004, secondo cui, la legge n. 675 del 1996 con riferimento all'attività giornalistica, stabilisce il principio della libertà del trattamento, nell'osservanza del codice deontologico in ossequio al “diritto all'informazione su fatti di interesse pubblico”, ma anche al suo contemperamento con il canone “dell'essenzialità dell'informazione”. Il rispetto delle previsioni deontologiche è condizione essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali (art. 20 D.Lgs. n. 467 del 2001 e 12 D.Lgs. n. 196 del 2003).
Pubblicare eccessivi dettagli privati e dati analitici di stretto interesse clinico, anche in caso di vicende di interesse pubblico, viola la privacy della persona e la dignità del malato. Lo ha ribadito il Garante per la protezione dei dati personali in due provvedimenti con i quali ha vietato a tre quotidiani del Nord, l'ulteriore diffusione - anche attraverso i loro siti web - delle generalità e di altri dati personali di una donna defunta per una grave malattia. La vicenda ha inizio quando i quotidiani pubblicano la notizia di una donna morta quasi due anni prima per il c.d. morbo della "mucca pazza” con tanto di nome, cognome, luogo di nascita e di residenza, professione, informazioni dettagliate sulla malattia. Una delle testate pubblicava anche una fotografia ripresa dalla lapide. Troppi, dunque, i dati riportati, soprattutto di natura sensibile: riferimenti dettagliati ai sintomi, alla durata e all'evoluzione della malattia, descrizione degli accertamenti medici svolti, ipotesi della diagnosi e risultati dell'autopsia indicati alla stampa dal personale ospedaliero. Presentando il reclamo al Garante, la figlia della defunta ha precisato, peraltro, che i dati sanitari non erano stati resi noti né dai familiari né da loro comportamenti tenuti in pubblico.
L'Autorità ha ricordato che il codice deontologico dei giornalisti stabilisce che il giornalista, nel far riferimento allo stato di salute di una persona, deve rispettarne la dignità, il diritto alla riservatezza e il decoro personale, specie nei casi di malattie gravi o terminali e astenersi dal pubblicare "dati analitici di interesse strettamente clinico”. L'Autorità ha ritenuto, inoltre, che i servizi giornalistici, consentendo la diretta identificazione dell'interessata attraverso le generalità, non hanno rispettato il principio di essenzialità dell'informazione, considerato anche il tempo trascorso (circa due anni) dal decesso.
Come devono essere trattati i dati personali concernenti la salute?
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 16145/2008 ha stabilito che “Dal sistema della Direttiva 95/46/CE, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, avente contenuto incondizionato e sufficientemente preciso, nonché dalla costante giurisprudenza comunitaria si ricava una tutela rigida ed incompressibile dei dati personali concernenti la salute. Pertanto, le norme del codice deontologico giornalistico e, segnatamente, gli articoli 5, 6, 7 del suddetto codice, in relazione all'art. 25 della Legge n. 675/1996, come modificato dall'art. 12 comma 3 D. Lgs. n. 171/1998, devono essere interpretate nel senso che non è consentito un trattamento di tali dati se non nelle forme e nei limiti previsti dalla direttiva”.
Un giornalista non può usare "artifici" per svolgere la sua attività, e deve rendere nota la sua professione a meno che vi siano rischi per la propria incolumità o non possa, altrimenti, adempiere alla funzione informativa. É illecito, quindi, utilizzare per un servizio giornalistico brani di conversazioni ed immagini di colloqui privati ripresi con una telecamera nascosta senza che vi siano fondati motivi. Per questo il Garante Privacy con provvedimento del 5 luglio 2007 ha ordinato ad una televisione via satellite di non trasmettere più un servizio giornalistico e di cancellarlo dal proprio sito Internet. Accogliendo i ricorsi di tre imam, ai quali si erano rivolti due giornalisti fingendosi coniugi di fede musulmana alla ricerca di un consulto religioso, il Garante ha ritenuto che siano stati violati i principi sulla protezione dei dati personali e del codice deontologico in materia di giornalismo e in particolare quelli relativi all'obbligo del giornalista di rendere note le finalità di un colloquio - ossia di star raccogliendo informazioni per un servizio giornalistico - e di evitare l'uso di "artifici". Pur sussistendo, infatti, l'interesse pubblico a conoscere le opinioni delle guide religiose di alcune delle principali moschee italiane sull'uso del velo da parte delle donne, dalla ricostruzione dei fatti è emerso che i giornalisti non hanno informato gli imam né dell'uso della telecamera, né che le loro dichiarazioni sarebbero state utilizzate per un servizio giornalistico. Non pertinenti e non essenziali all'informazione sono risultate, inoltre, le traduzioni di brani di telefonate ricevute da uno degli imam durante i colloqui e riportate nel servizio. Non ricorreva, poi, sempre secondo l'Autorità, un'ipotesi prevista dal codice deontologico alla quale si appellava invece la società televisiva che consente al "giornalista che raccoglie notizie" di non qualificarsi solo nel caso in cui "ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l'esercizio della funzione informativa". I due giornalisti televisivi, infatti, avevano reso nota, seppure genericamente, la propria professione agli imam che li avevano comunque ammessi nei loro uffici all'interno delle moschee ed avevano continuato a fornire informazioni, anche se gli stessi le annotavano su un taccuino.
In conseguenza dell'illecita raccolta dei dati, il Garante ha vietato anche ad un quotidiano l'ulteriore diffusione sul proprio sito delle informazione relative ai due imam, in particolare le loro immagini, pubblicate in un articolo in cui si anticipava la messa in onda del servizio.
In ordine alla questione della legittimità del consenso implicito, si richiama il Codice della privacy, D.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, per il quale il trattamento di dati personali da parte di privati è ammesso solo con il “consenso espresso” dell'interessato (art. 23). Essendo l'immagine un dato personale protetto dalla normativa sulla privacy, parte della giurisprudenza sostiene che il consenso al suo utilizzo non può essere più tacito o implicito, come si sosteneva in base alla legge sul diritto d'autore, ma deve essere espresso, ai sensi della normativa sulla privacy.
La Cassazione con sentenza 3014/2004 ha tuttavia ritenuto che la presunzione di consenso, presuppone un comportamento inequivocabile da parte del soggetto ritratto. Pertanto, non può riconoscersi un “consenso presunto” per il solo fatto di circolare per una pubblica via, di frequentare un pubblico esercizio o di sdraiarsi sulla riva del mare, soprattutto quando l'immagine risulti carpita con l'uso di teleobiettivi o di candid-camera.
La Corte di Cassazione Penale con sentenza n. 17408/2008 ha stabilito che “non possono essere pubblicate le fotografie che ritraggono il premier Silvio Berlusconi in compagnia di ragazze nel parco della dimora sarda “Villa Certosa””. La Cassazione ha quindi confermato la legittimità del sequestro preventivo dei famosi scatti che furono pubblicati sul settimanale “Oggi” e sul “Corriere della Sera”. Già il Garante per la Privacy aveva inibito al settimanale “Oggi” la pubblicazione delle immagini relative al servizio incriminato. Nonostante il divieto, le stesse foto erano state nuovamente pubblicate sul quotidiano “Il Corriere della Sera”. A disporre nuovamente il sequestro era stato il Tribunale della Libertà di Milano. La Cassazione, ha ritenuto legittimo il sequestro in quanto gli scatti incriminati ritraggono “aspetti di vita privata che si svolgevano nelle appartenenze del domicilio” di Silvio Berlusconi “eseguite mediante intrusione in questo con mezzi tecnici particolari, contro la volontà di chi aveva lo ius excludendi”, ed “al fine di evitare che la condotta criminosa possa protrarsi o reiterarsi”, provocando un “danno alla privacy” del Cavaliere. La Suprema Corte ha inoltre sottolineato che la tutela del domicilio e della vita privata sono tutelate anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e che il Decreto Legislativo n. 196 del 2003 attribuisce al Garante della protezione dei dati personali il potere di disporre il blocco del trattamento delle immagini. Per cui le fotografie che ritraggono Silvio Berlusconi in compagnia delle ragazze a Villa Certosa “non solo rappresentano aspetti di vita all'interno di appartenenza di dimora privata, ma sono anche il risultato di intrusione nel domicilio altrui, in modo da costituire l'ipotizzato reato di cui all'art. 615 bis c.p. e in modo da violare anche il codice deontologico nell'attività giornalistica, che prescrive l'uso corretto di tecniche invasive”. Inoltre, non potendo rientrare le fotografie in questione nel concetto di stampa o di stampato – come invece sostenuto dalla società editrice - per esse non vige il divieto di sequestro. Giusto dunque inibire la pubblicazione delle immagini anche di persone note quando violano la privacy
Anche se la giurisprudenza riconosce l'interesse pubblico che giustifica la pubblicazione dell’immagine della persona nota, con riferimento a chi la circonda è richiesto comunque che la persona ritratta in compagnia di un personaggio pubblico ne sia in qualche modo consapevole e abbia la possibilità di consentire, seppur tacitamente, alla pubblicazione. La rilevanza pubblica del soggetto riguarda, in qualche modo, anche i suoi familiari, in ordine ai quali si può parlare di una “relativa” rilevanza pubblica, nel senso che le loro esigenze di privatezza sono sacrificate solo in connessione col personaggio pubblico e nella misura necessaria a soddisfare l'esigenza di mettere in luce la figura dello stesso (Dichiarazione Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa 12 febbraio 2004).
Diverso, ovviamente, è il caso di chi si trovi del tutto casualmente in una data situazione.
Solo la continua e pubblica vicinanza alla persona nota, non occasionale né inevitabile, potrà, pertanto, far ritenere sussistente un tacito consenso al sacrificio del proprio diritto. Non è sufficiente, quindi, che la persona sia ritratta nella cornice di un luogo pubblico (una spiaggia, una piazza, un pubblico giardino): deve, in più, svolgersi in tale luogo un fatto d'una certa importanza, a cui la riproduzione sia collegata.
Il sacrificio dell'interesse della persona è, perciò, ammissibile solo in presenza di un interesse generale all'informazione che deve ricorrere effettivamente e attualmente.
Il codice deontologico all’art. 7 dispone che “Al fine di tutelarne la personalità, il giornalista non pubblica i nomi dei minori coinvolti in fatti di cronaca, né fornisce particolari in grado di condurre alla loro identificazione. La tutela della personalità del minore si estende, tenuto conto della qualità della notizia e delle sue componenti, ai fatti che non siano specificamente reati. Il diritto del minore alla riservatezza deve essere sempre considerato come primario rispetto al diritto di critica e di cronaca; qualora, tuttavia, per motivi di rilevante interesse pubblico e fermo restando i limiti di legge, il giornalista decida di diffondere notizie o immagini riguardanti minori, dovrà farsi carico della responsabilità di valutare se la pubblicazione sia davvero nell'interesse oggettivo del minore, secondo i princìpi e i limiti stabiliti dalla “Carta di Treviso”.
La Carta di Treviso, rappresenta, da un lato, una guida preziosa ed indispensabile per i giornalisti che divulgano notizie sui minori, dall’altro, un codice di condotta che può dar luogo a responsabilità disciplinare degli stessi. Le norme previste devono essere applicate anche al giornalismo on-line, multimediale e ad altre forme di comunicazione giornalistica che utilizzino innovativi strumenti tecnologici per i quali dovrà essere tenuta in considerazione la loro prolungata disponibilità nel tempo. Tutto questo, fermo restando il diritto di cronaca in ordine ai fatti e alle responsabilità, ma ricercando “un equilibrio con il diritto del minore ad una specifica e superiore tutela della sua integrità psico-fisica, affettiva e di vita di relazione“.
In caso di pubblicazione di un’immagine di un minore, i giornalisti sono, quindi, tenuti a rispettare le regole sancite dalle suddette Carte deontologiche, il cui principio cardine è quello di evitare la pubblicazione di foto o immagini che possano portare con facilità all’identificazione del minore.
Il diritto del minore all’anonimato, ed in generale alla riservatezza, si fonda sul presupposto che l’identificazione del bambino coinvolto come autore, vittima o teste in fatti di cronaca possa influenzare negativamente la sua crescita. Tale rischio, tuttavia, non esiste quando il servizio giornalistico dà positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare in cui si sta formando, ritenendosi, pertanto, lecita la diffusione di immagini che ritraggono un minore in momenti di svago e di gioco. Il Garante con provvedimento 6 maggio 2004 ha però stabilito che resta fermo l'obbligo per il giornalista di acquisire l'immagine correttamente, senza inganno e in un quadro di trasparenza.
La disciplina sulla privacy impone a chi intende diffondere l’immagine di una persona, in particolare di un minore, di rispettare alcuni adempimenti: innanzitutto, l’acquisizione del consenso espresso dell’interessato, che in caso di trattamento di dati di tipo sensibile deve avvenire in forma scritta, e, in secondo luogo, l’informazione preventiva all’interessato delle finalità e delle modalità del trattamento e dei diritti di cui è titolare, come ad esempio il diritto di ottenere la cancellazione o la trasformazione in forma anonima del dato personale (artt. 13, 23 e 26 D.lgs. n. 196/2003).
In particolar modo la Corte di Cassazione, con sentenza 19069/2006, ha ritenuto che laddove non si riscontri alcuna utilità sociale della notizia, nel bilanciamento degli opposti valori costituzionali, e quindi del diritto di cronaca e del diritto alla privacy, la riservatezza del minore è da considerarsi assolutamente preminente.
Vi è poi da aggiungere che la violazione degli artt. 96 e 97 della legge n. 633/1941 configura un’ipotesi di abuso dell’immagine altrui, ai sensi dell’art. 10 c.c.
Pertanto, se l'immagine di un minore è stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l'esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei congiunti, “l'autorità giudiziaria, su richiesta dell'interessato, può disporre che cessi l'abuso, salvo il risarcimento dei danni”.
La Corte di Cassazione civile con sentenza 21172/2006 ha precisato che “l'esposizione o la pubblicazione dell'immagine altrui, a norma dell'art. 10 c.c. e degli art. 96 e 97 l. 22 aprile 1941 n. 633 sul diritto d'autore, è abusiva non soltanto quando avvenga senza il consenso della persona o senza il concorso delle altre circostanze espressamente previste dalla legge come idonee a escludere la tutela del diritto alla riservatezza - quali la notorietà del soggetto ripreso, l'ufficio pubblico dallo stesso ricoperto, la necessità di perseguire finalità di giustizia o di polizia, oppure scopi scientifici, didattici o culturali, o il collegamento della riproduzione a fatti, avvenimenti, cerimonie d'interesse pubblico o svoltisi in pubblico - ma anche quando, pur ricorrendo quel consenso o quelle circostanze, l'esposizione o la pubblicazione sia tale da arrecare pregiudizio all'onore, alla reputazione o al decoro della persona medesima”.
Non si può pubblicare una lettera privata, anche se inviata via e-mail a più persone, senza il consenso dell'autore e dei destinatari. Il principio è stato ribadito dal Garante in seguito al ricorso presentato dal capo di un'associazione a carattere religioso, che aveva lamentato la pubblicazione di una e-mail su un quotidiano a diffusione nazionale, a lui indirizzata, contenente fatti confidenziali e riguardanti la propria vita intima. Nell'accogliere il ricorso, l'Autorità ha ordinato la cancellazione della lettera dall'edizione on line del quotidiano.
Il giornale aveva pubblicato un articolo sulla poligamia e si era servito della e-mail che l'ex moglie del ricorrente, dopo esser stata ripudiata, aveva inviato a lui e, per conoscenza, ad altre quattro persone. Proprio l'invio della lettera a diversi destinatari avrebbe attenuato, secondo l'editore del quotidiano, la natura riservata della corrispondenza. Ma l'autrice della lettera ha negato di aver dato il proprio consenso alla pubblicazione del suo scritto. Il Garante, nel ricordare che il trattamento dei dati personali in ambito giornalistico può avvenire senza consenso solo riguardo a fatti di interesse pubblico e rispettando l'essenzialità dell'informazione, ha riconosciuto l'interesse pubblico della vicenda, ma ha ritenuto illecita la diffusione degli stralci di una corrispondenza privata avvenuta tramite posta elettronica. Un tipo di trattamento che viola anche il principio costituzionale secondo il quale la libertà e la segretezza della corrispondenza operano indipendentemente dal mezzo utilizzato. L'Autorità ha, inoltre, osservato che la pubblicazione pedissequa di parti della lettera contravviene ai principi della legge sul diritto d'autore, per i quali non può essere diffusa, pubblicata o riprodotta la corrispondenza a carattere confidenziale o che si riferisca all'intimità della vita privata senza il consenso dell'autore e del destinatario. Principio che trova applicazione anche in ambito giornalistico.
Con riferimento alla nota vicenda relativa alla diffusione via internet dei modelli fiscali dei contribuenti italiani da parte dell’Agenzia delle Entrate, il Garante della Privacy con provvedimento del 6 maggio 2008 ha dichiarato illecita sia l'avvenuta diffusione dei dati da parte dell'Agenzia delle entrate sia i futuri comportamenti di chi - avendo reperito in internet tali informazioni - le continui a diffondere, esponendosi così a "conseguenze di carattere civile e penale". Il Garante della privacy si è inoltre riservato di contestare con altro provvedimento all'Agenzia delle Entrate la mancanza "di un'idonea informativa ai contribuenti riguardo alla forma adottata per la diffusione dei loro dati, anche al fine di determinare la relativa sanzione amministrativa". Nel detto provvedimento il Garante ha, però, precisato che "resta fermo il diritto-dovere dei mezzi di informazione di rendere noti i dati delle posizioni di persone che, per il ruolo svolto, sono o possono essere di sicuro interesse pubblico, purché tali dati vengano estratti secondo le modalità attualmente previste dalla legge".