SPORTELLO ASSISTENZA LEGALE
FAQ Diritto di Cronaca
Cosa si intende per onore, reputazione e identità personale?
Quali sono le regole per un corretto esercizio del diritto di cronaca?
E’ obbligatorio il controllo dell’attendibilità delle fonti?
Quando e’ superato il limite della continenza?
Quali le cause di non punibilità delle violazioni commesse nell’esercizio del diritto di cronaca?
La notizia di cronaca deve essere completa?
Devono essere verificati anche i comunicati stampa e le informative della Polizia di Stato?
Quali regole seguire in tema di cronaca giudiziaria?
Come devono essere valutate le dichiarazioni rilasciate da persone autorevoli?
Quali le differenze fra diritto di critica e diritto di cronaca?
Come valutare la continenza in ipotesi di critica politica?
E’ lecita la critica dei fatti privati esposti in televisione?
E’ lecita la pubblicazione di un’interrogazione o interpellanza parlamentare?
Il nostro ordinamento giuridico pone sullo stesso piano di tutela diritti destinati inevitabilmente a collidere tra loro. E’ un punto di partenza e di riflessione per comprendere il rapporto esistente tra beni quali l’onore, la reputazione e l’identità personale da una lato, e la libera manifestazione del pensiero dall’altro.
Si tratta di trovare il giusto bilanciamento tra interessi costituzionali contrastanti.
Dottrina e giurisprudenza identificano il concetto di onore nella “dignità sociale: intesa quest’ultima come stima diffusa nell’ambiente sociale di cui ogni soggetto, seppur in maniera differenziata, gode e che rappresenta per esplicito riconoscimento costituzionale (art. 3) il fondamento del principio di uguaglianza“.
Si è altresì affermato che tale concetto debba essere inteso in senso evolutivo, ossia con riguardo al periodo storico considerato.
Diversa dall’onore è la reputazione definita dalla dottrina come l’idea che ciascun individuo diffonde di sé, delle proprie qualità personali, professionali, morali presso gli altri associati, mentre per la giurisprudenza di legittimità la reputazione è il senso della dignità personale nell’opinione degli altri, un sentimento limitato dall’idea di ciò che, per la comune opinione, è socialmente esigibile da tutti in un dato momento storico.
L’identità personale trova il suo fondamento nell’art. 2 della Carta Costituzionale e consiste nell’interesse di ciascun soggetto a non vedere alterato, modificato, falsificato il proprio essere nel contesto delle relazioni sociali. La lesione di tale bene può aversi mediante attribuzioni sia peggiorative che migliorative: il risultato è identico laddove ne risulti travisata l’identità del soggetto al quale le stesse si riferiscono.
Il diritto all’identità personale costituisce l’interesse a essere rappresentato nella vera identità, cioè a non vedere all’esterno alterato travisato, offuscato il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale, quale si era estrinsecato ed appariva nella comunità di appartenenza del diffamato prima della pubblicazione della notizia lesiva dell’onore.
Deve essere precisato però che il diritto soggettivo alla tutela dell'onore e della reputazione trova i propri limiti nei diritti, altrettanto garantiti sul piano costituzionale, alla libera espressione e divulgazione del pensiero. Ne discende che, “qualora ricorra un interesse dei consociati ad essere informati ed a partecipare al dibattito sociale e politico, anche le notizie potenzialmente lesive dell'altrui reputazione restano divulgabili lecitamente, in quanto penalmente scriminate ed improduttive di responsabilità civile, a condizione che non venga travalicato il limite dell'esercizio dei diritti tutelati dall'art. 21 cost.” (Tribunale Milano, 3 marzo 2003).
Inoltre la Corte di Cassazione, con sentenza del 24 maggio 2002, n. 7628, ha affermato che “la lesione dell'onore e della reputazione altrui non si realizza quando la notizia diffusa sia vera per essere contenuta in un documento ufficiale”
Il diritto di cronaca deve essere esercitato correttamente e cioè senza travalicare i limiti imposti dall’ordinamento e dal rispetto dei diritti altrui.
Appare opportuno per le considerazioni fin qui svolte e preliminare all’ulteriore sviluppo, riportare la recente sentenza della Cassazione Civile n. 6041 del 6 marzo 2008, che in tema di azione proposta per il risarcimento del danno da lesione della reputazione effettuata con articolo giornalistico, il legittimo esercizio del diritto di cronaca giornalistica esclude l’esistenza di un “danno ingiusto” nei confronti della persona (fisica o giuridica).
Ma quando può dirsi effettivamente legittimo l’esercizio del diritto di cronaca? Entrando nello specifico di tali limiti, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 5259/1984 - nota come il c.d. “Decalogo del giornalista” - ha affermato che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto di cronaca può essere esercitato (quando possa derivarne la lesione all'altrui reputazione, prestigio o decoro) soltanto qualora siano dal cronista rispettate alcune condizioni.
E’ tale sentenza ad affermare che l’esercizio della libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti, cioè il diritto di stampa - sancito in linea di principio nell’art. 21 della Costituzione e regolato fondamentalmente nella legge 8 febbraio 1948, n. 47 - è legittimo, e quindi può anche prevalere sul diritto alla riservatezza, se concorrono le seguenti condizioni: 1) l’utilità sociale dell’informazione, ossia la necessità dell’esistenza di un interesse pubblico a che la notizia e i fatti siano conosciuti e diffusi; 2) la verità, oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca dei fatti esposti; 3) la forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, anche detta continenza formale. Non ricorre quest’ultima condizione quando la critica è eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, difetta di serenità e di obiettività, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ed infine non è improntata a leale chiarezza.
E’, poi, la stessa Corte ad indicare che lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista ricorre ad una delle seguenti subdole tecniche: 1) al sottinteso sapiente, che consiste nell’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori le intenderà o in maniera diversa o, addirittura, contraria al loro significato letterale, e, comunque, in senso fortemente sfavorevole ed offensivo nei confronti della persona che si vuole mettere in cattiva luce. Un esempio è rappresentato dal racchiudere determinate parole tra virgolette, allo scopo di far intendere al lettore che esse non sono altro che eufemismi, e che, comunque, sono da interpretarsi in un senso molto diverso da quello che avrebbero senza virgolette; 2) agli accostamenti suggestionanti di fatti che si riferiscono alla persona che si vuole mettere in cattiva luce con altri fatti (presenti o passati, ma sempre in qualche modo negativi per la reputazione) riguardanti altre persone estranee, oppure con giudizi negativi apparentemente espressi in forma generale ed astratta e, come tali, ineccepibili ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce, inevitabilmente, a persone ben determinate; 3) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, specie nei titoli, o, comunque, all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie "neutre" allo scopo di indurre i lettori più superficiali a lasciarsi suggestionare soltanto dal tono usato (classico, a tal fine, è l’uso del punto esclamativo anche là dove, di solito, non viene messo); 4) alle vere e proprie insinuazioni, che ricorrono quando, pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente, si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda lo stesso in considerazione a tutto svantaggio della reputazione di un determinato soggetto.
Il principio fondamentale messo a punto dalla ormai consolidata giurisprudenza in materia (si vedano inoltre Cass. 1205/2007; Cass. 6973/2007), è dunque quello che il diritto di cronaca non esime di per sé dal rispetto dell'altrui reputazione e riservatezza, ma giustifica intromissioni (anche lesive) nella sfera privata dei cittadini solo quando esse possano contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti per la collettività.
Solo se sussistono gli elementi suddetti il diritto di cronaca è correttamente esercitato ed il giornalista che offende la reputazione altrui non è punibile per il reato di diffamazione.
La giurisprudenza ha individuato i principi fondamentali affinché il diritto di cronaca, possa essere considerato legittimo e, quindi, prevalente sui beni quali l’onore, la reputazione, l’identità personale e concernenti la sfera personale del soggetto interessato.
Tuttavia, il giornalista deve essere accorto sia nello scegliere le fonti di informazione e nel vagliare caso per caso la loro inattendibilità, sia nell’effettuare quei controlli suggeriti dalla diligenza e dalla perizia professionale.
Una sentenza della Cassazione penale n. 5941/2000 ha affermato che l'avere il giornalista ricavato i fatti dall'esposto di un privato, non lo esime dal dovere di verifica e controllo della veridicità della notizia.
Ne deriva, pertanto, l’equivalenza, agli effetti scriminanti (che evitano il reato), della notizia vera e della notizia seriamente accertata.
Ancora con sentenza del 6 marzo 2008 n. 6041, la Suprema Corte ha ulteriormente sancito che vi è legittimo esercizio del diritto di cronaca soltanto quando vengano rispettate le seguenti condizioni: “A) la verità (oggettiva o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) delle notizie” ma ha poi, altresì, stabilito che la “verità non sussiste quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato” (c.d. mezze verità); “ovvero quando i fatti riferiti siano accompagnati da sollecitazioni emotive ovvero da sottintesi, accostamenti, insinuazioni, allusioni o sofismi” (c.d. verità alterata) “obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore (od ascoltatore) rappresentazioni della realtà oggettiva false (che si esprime nella formula che “il testo va letto nel contesto”, il quale può determinare un mutamento del significato apparente della frase altrimenti non diffamatoria, dandole un contenuto allusivo, percepibile dall’uomo medio); B) la continenza e cioè il rispetto dei requisiti minimi di forma che debbono caratterizzare la cronaca ed anche la critica (e quindi tra l’altro l’assenza di termini esclusivamente insultanti); C) la sussistenza di un interesse pubblico all’informazione”.
Pertanto, non può dirsi veritiera la ricostruzione di avvenimenti realizzata attraverso il travisamento della successione degli eventi o l’omissione di fatti rilevanti o l’enunciazione di altri, ma in modo artificioso.
Ed infatti la Cassazione civile con sentenza del 4 luglio 2006 n. 15270, ha sancito che “la verità della notizia non sussiste quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato; ovvero quando i fatti riferiti siano accompagnati da sollecitazioni emotive ovvero da sottintesi, accostamenti, insinuazioni o sofismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore (od ascoltatore) rappresentazioni della realtà oggettiva false (in tutto od in parte rilevante)”.
Tuttavia non determinano il superamento del limite della verità, le piccole inesattezze incidenti su semplici modalità o circostanze del fatto che, tuttavia, non ne modificano la struttura essenziale. Ed infatti “Allorché non vi sia perfetta coincidenza tra la sintesi giornalistica di fatti apparsi su organi di stampa e le dichiarazioni verbalizzate in atti processuali, deve ritenersi ugualmente sussistente l'esercizio del diritto di cronaca allorché la parte non coincidente sia da annoverare tra le inesattezze della notizia giornalistica da considerarsi non relative all'essenza e alla sostanza del fatto storico riferito e, quindi, tali da non costituire una violazione della verità essenziale del fatto riportato dalla cronaca giornalistica”. (Uff. Indagini preliminari Milano, 2 gennaio 2003).
E’ comunque vero che l’obbligo di controllare l’attendibilità delle fonti è difficilmente compatibile con le esigenze tecnico produttive di un’azienda giornalistica moderna. Quest’ultima infatti, proprio per gli stretti tempi connessi alla modalità di svolgimento del suo servizio informativo, per l’organizzazione interna del lavoro, per la legge della concorrenza, non è in grado di assolvere puntualmente l’obbligo di controllo delle fonti di informazione o, in caso contrario, sarebbe impossibilitata a pubblicare tempestivamente la notizia, con innegabili effetti negativi sull’immagine e sul credito della testata.
Sul punto in giurisprudenza non vi è un orientamento concorde. Infatti, vi è chi privilegia l’esigenza di garantire l’attualità della notizia, posto che un’indagine rigorosa in merito all’attendibilità delle fonti significherebbe non solo intralciare il compito del giornalista, ma inaridire all’origine la vivacità e l’interesse delle notizie che stanno per essere diffuse, togliendo alle stesse quel carattere di attualità che ne rappresenta la nota saliente.
Il legittimo esercizio del diritto di cronaca presuppone la fedeltà dell'informazione, cioè l'esatta rappresentazione del fatto percepito dal giornalista, che deve rendere inequivoco il tipo di percezione, spiegando se è relativa al contenuto della notizia o alla notizia in sé come fatto storico ed inoltre se è diretta ovvero indiretta. “La verità della notizia può anche essere solo putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca; pertanto l'esimente del diritto di cronaca opera se il giornalista in buona fede ritenga vera una notizia che si riveli falsa in un secondo momento, sempre che l'abbia accuratamente verificata”. (Cassazione civile 8 febbraio 2007 , n. 2751).
Ancora, per la Cassazione civile (n. 2271/ 2005) “il giornalista ha l'obbligo di controllare l'attendibilità della fonte informativa, a meno che non provenga dall'autorità investigativa o giudiziaria, e di accertare la verità del fatto pubblicato, restando altrimenti responsabile dei danni derivati dal reato di diffamazione a mezzo stampa, salvo che non provi l'esimente di cui all'art. 59, ultimo comma, c.p. e cioè la sua buona fede. A tal fine la cosiddetta verità putativa del fatto non sussiste per la mera verosimiglianza dei fatti narrati, essendo necessaria la dimostrazione dell'involontarietà dell'errore, dell'avvenuto controllo - con ogni cura professionale, da rapportare alla gravità della notizia e all'urgenza di informare il pubblico - della fonte e della attendibilità di essa, onde vincere dubbi e incertezze in ordine alla verità dei fatti narrati”.
La giurisprudenza dominante ritiene la non eludibilità di tale obbligo di controllo neppure per le esigenze di speditezza del servizio di informazione. Ed infatti, la Suprema Corte con sentenza 6041/2008, ha confermato che “nell’esercizio del diritto di cronaca la verità dei fatti deve essere controllata dal giornalista non solo con riferimento all’attendibilità della fonte, ma anche con un lavoro di accertamento”.
La Cassazione penale ha deciso (con sentenza 6925/2001) che il limite della continenza, entro il quale deve svolgersi un corretto esercizio del diritto di cronaca e di critica, è superato “quando le informazioni, pur vere, si risolvano - per il lessico impiegato, per l'uso strumentale delle medesime, per la sostanza e la forma dei giudizi che le accompagnano - in un attacco personale e gratuito al soggetto cui si riferiscono: quando cioè, al di là della offensività della notizia e della negativa sua valutazione (che sono scriminate se veritiere e di interesse sociale) si realizzi una lesione del bene tutelato, attraverso il modo stesso in cui la cronaca e la critica vengono attuate”.
Si può quindi affermare che la continenza consiste nella forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione che non eccede lo scopo informativo da conseguire e sia improntata a leale chiarezza evitando forme di offesa indiretta. E’ necessario quindi che la cronaca sia esposta e pubblicata con moderazione , proporzione e misuratamente, avverbio utilizzato dalla Cassazione nella sentenza n. 26999/2005. La continenza esclude gli insulti, le espressioni gratuite e non necessarie, volgari, umilianti, dileggianti o, comunque, diffamatorie (Cassazione civile n. 20137/2005).
“La continenza va intesa sia come correttezza formale, sia come limite sostanziale, individuabile in ciò che è strettamente necessario per soddisfare l'interesse generale alla conoscenza di determinati fatti di rilievo sociale, e che va accertato in base ad un'indagine orientata verso il risultato finale della comunicazione e vertente imprescindibilmente, in particolare, sui seguenti elementi: 1) accostamento di notizie, quando esso sia dotato di autonoma attitudine diffamatoria; 2) accorpamento di notizie che produca un'espansione di significati; 3) uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico le intenderà in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale; 4) tono complessivo della notizia e titolazione”. (Cassazione civile, 13 febbraio 2002 n. 2066).
L'art. 59 del codice penale dispone che se chi commette il fatto ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena (quale è l'esercizio del diritto di cronaca), queste sono sempre valutate a suo favore.
Si tratta della situazione che in termini giuridici va sotto il nome di “esercizio putativo del diritto di cronaca”. In altre parole, chi commette il fatto diffamatorio non è punibile anche se credeva per errore di esercitare un diritto.
E tale è il caso in cui il cronista ritiene vera una notizia poiché ha effettivamente compiuto seri riscontri in merito, ma pur avendo diligentemente adempiuto il dovere di controllo della fonte della notizia, abbia una percezione erronea della realtà e racconti fatti in realtà non rispondenti al vero. In questo caso il giornalista crede in buona fede di esercitare nei giusti limiti il proprio diritto di cronaca e, pertanto, risulterà non punibile.
La seconda causa di non punibilità riguarda il consenso del soggetto titolare del diritto alla reputazione, cioè della persona a cui i fatti si riferiscono.
A norma dell’art. 50 del codice penale, “non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne”. Vale a dire che se la divulgazione di fatti o foto lesive della reputazione avviene con il benestare della persona interessata, l'autore dell'illecito non è punibile.
Tale norma è stata spesso invocata da fotografi che dopo aver palesemente ritratto un personaggio noto e venduto per la pubblicazione le fotografie offensive si sono difesi eccependo la circostanza che, essendo nota la qualità di fotografo (e quindi il futuro uso delle foto) ed avendo la persona (implicitamente) acconsentito, il reato così commesso non era punibile.
In realtà la giurisprudenza ha chiarito che la causa di non punibilità rappresentata dal consenso del titolare del diritto, presuppone che quest’ultimo abbia prestato un consenso valido e definitivo quanto all'oggetto della condotta illecita, alle sue modalità di estrinsecazione, alla collocazione storico-temporale della lesione del diritto.
Quindi, secondo l'orientamento sopra citato, il consenso alla divulgazione dei fatti offensivi, per escludere la punibilità, deve essere specifico e relativo ad un ambito di utilizzazione ben definito.
Stessa efficacia è data dal consenso putativo che ricorre nel caso in cui, in base alle circostanze, sussista una ragionevole persuasione per l'agente di operare con il consenso della persona che può validamente disporre del diritto.
Il principio stabilito dalla Cassazione Penale con sentenza n. 14062 del 3 aprile 2008 è che “la notizia di cronaca oltre che veritiera deve essere completa se ciò è necessario per la tutela della reputazione della persona interessata”.
Al giornalista che intenda dar conto di una vicenda la quale implichi risvolti giudiziari a distanza di tempo dall’epoca di acquisizione della notizia, incombe l’obbligo rigoroso, in ragione del naturale e per nulla prevedibile percorso processuale della vicenda, di completare e quindi aggiornare la verifica di fondatezza della notizia nel momento diffusivo, utilizzando le pregresse fonti informative, o qualunque altra idonea disponibile. Sotto tal profilo, ogni individuo coinvolto in indagini di natura penale, è titolare di un interesse primario a che, caduta ogni ragione di sospetto, la propria immagine non resti offesa da notizie di stampa che riferiscano dell’iniziale coinvolgimento ed ignorino, invece, l’esito positivo delle indagini stesse. Il requisito di verità della notizia rimane vulnerato anche dalla incompletezza della notizia medesima, quando gli elementi mancanti abbiano determinato rilievo per la reputazione del soggetto interessato.
La Cassazione (n. 26999/2005) - in una fattispecie in cui pur essendo stata data la notizia vera di un arresto, questa non era stata riferita in modo completo essendo stato omesso di riferire l'immediata successiva scarcerazione dell'incolpato - ha poi statuito che “il diritto di cronaca deve esprimere una narrazione rigorosa e veritiera dei fatti, caratterizzata dalla continenza dell'esercizio del corrispondente diritto, sia nel suo contenuto (continenza sostanziale), sia nel modo in cui esso si estrinseca (continenza formale). Ciò posto, per essere sostanzialmente continente, la cronaca non solo deve riferire fatti veri, ma deve anche essere completa”.
Un consolidato indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione ha affermato che i comunicati stampa e le informative della Polizia di stato non costituiscono fonti privilegiate idonee ad escludere per il giornalista l’obbligo di verificare autonomamente e preventivamente i fatti e di dare la prova della cura posta negli accertamenti esplicati (esperiti) per vincere ogni dubbio e incertezza.
I giudici sostengono che non esistano fonti privilegiate. Il giornalista può invocare l’esimente dell’esercizio putativo del diritto di cronaca, purché abbia seguito i suggerimenti della prudenza e della perizia professionale nella verifica dei fatti oggetto della notizia pubblicata.
La notizia pubblicata deve essere, dunque, vera o verosimile tale da apparire reale al giornalista che si sia attentamente documentato ed abbia opportunamente vagliato le fonti informative. L’articolo giornalistico deve comunque rivestire un interesse sociale e pubblico. In altri termini, i fatti contenuti devono essere “interessanti” per la comunità dei lettori. La notizia, tuttavia, deve essere riferita in modo obiettivo e in termini corretti. Più in particolare, la giurisprudenza ha chiarito che le notizie rese pubbliche da altre fonti informative non fanno venire meno, in capo al giornalista, l’obbligo di controllo “altrimenti le fonti propalatrici della notizia, attribuendosi reciprocamente credito, finirebbero per rinvenire in se stesse attendibilità”.
La verità della notizia tratta da un provvedimento giudiziario sussiste ogni volta che sia fedele al contenuto del provvedimento stesso senza travisamenti o alterazioni di sorta. Il limite della verità deve essere restrittivamente inteso e si deve quindi verificare la rigorosa corrispondenza tra quanto narrato dal giornalista e quanto realmente accaduto (e correttamente riferito nel provvedimento giudiziario fonte non privilegiata della notizia).
La Cassazione civile (6041/2008) ha però precisato che non può certo ritenersi, che il giornalista sia tenuto a svolgere specifiche indagini sulla attendibilità del dichiarante (testimone, coimputato o “pentito”), “poiché il giornalista è tenuto solo ad accertare che la dichiarazione sia stata effettivamente resa ed in quale contesto”. Pretendere che il giornalista accerti l’attendibilità del dichiarante e la corrispondenza al vero del contenuto della dichiarazione, comporterebbe “o snaturare l’attività del giornalista” attribuendogli il compito di indagini giudiziarie “o di fatto impedire l’esercizio della cronaca giudiziaria”, fino all’esito della sentenza definitiva, poiché solo con quest’ultima si ha la certezza della verità o meno del contenuto di una dichiarazione resa nel procedimento. Il giornalista deve, tuttavia, indicare la fase processuale in cui tali dichiarazioni sono state rese e gli atti da cui provengono, in modo che il lettore possa chiaramente intendere se la dichiarazione stessa abbia già avuto un qualche vaglio processuale da parte del magistrato e se dovrà averne altri.
In particolare, ai fini di un legittimo esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, non potrà non essere menzionato che la dichiarazione diffamatoria contenuta nell’atto giudiziario sia già stata negativamente valutata dal magistrato, perché non conforme al vero, quando ciò sia già avvenuto con provvedimenti giudiziali in quella fase in cui è giunto il processo.
Relativamente alle c.d. fonti privilegiate, la giurisprudenza ha chiarito che non è consentito fare affidamento su soggetti che per la loro posizione non siano in grado di fornire notizie certe. In sostanza, anche le dichiarazioni di eminenti e affidabili personaggi vanno accuratamente vagliate, meditate, verificate.
A tal proposito però, deve essere sottolineato che “la formulazione della risposta fornita dall'intervistato nei termini riportati in capo di imputazione ha - perché non proveniente da un quivis de populo, bensì da un soggetto qualificato come relatore della Commissione Bicamerale sui problemi della giustizia, in tale veste interpellato - una seria valenza rafforzativa della veridicità della notizia agli occhi dell'intervistatore. L'avere il giornalista intervistato sull'argomento in questione un soggetto particolarmente qualificato ed autorevole - che, nell'esprimere la propria “opinione”, ha implicitamente dato per pacifico il fatto stesso - rappresenta, indubbiamente, un momento di accurata attività di controllo sulla verità della notizia percepita quale esigibile dal giornalista”. (Cassazione penale, 9 luglio 2004, n. 37435).
“Il giornalista che riporti espressioni offensive pronunciate da un personaggio di indiscussa notorietà, non è responsabile di diffamazione ove assuma una posizione imparziale e le dichiarazioni concernano materie di interesse pubblico”. Questo è il principio da ultimo espresso dalla Corte Cassazione Civile n. 10686 del 24 aprile 2008.
La Suprema Corte ha precisato, in motivazione, “che Il giornalista che, assumendo una posizione imparziale, riporti il testo di un’intervista nella quale il soggetto intervistato abbia rilasciato dichiarazioni lesive della reputazione di terzi può essere scriminato in forza dell’esercizio del diritto di cronaca quando il fatto “in sé” dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto dell’intervista, presenti profili di interesse pubblico all’informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo. In tal caso, il giornalista potrà essere scriminato anche se riporterà espressioni offensive pronunciate dall’intervistato all’indirizzo di altri, quando, ad esempio, per le rilevanti cariche pubbliche ricoperte dai soggetti coinvolti nella vicenda o per la loro indiscussa notorietà in un determinato ambiente, l’intervista assuma il carattere di un evento di pubblico interesse, come tale non suscettibile di censura alcuna da parte dell’intervistatore”.
Il fatto riferito, infatti, può non essere affatto vero, e ciò tuttavia non esclude che può essere ben vero che un soggetto lo racconti. Occorre, però, che tale propalazione costituisca di per sé stessa un fatto così rilevante nella vita pubblica, che la stampa verrebbe certamente meno al suo compito informativo se lo tacesse. Va tuttavia specificato che, in questo caso, il cronista ovviamente ha il dovere di mettere bene in evidenza che la verità asserita non si estende al contenuto del racconto, ma si limita a registrare il fatto storico in sé considerato, che una determinata notizia circola pubblicamente nonché di riferirne anche le fonti di propalazione per le doverose, conseguenti assunzioni delle rispettive responsabilità (Cassazione n. 1205/2007)
E’ palese, quindi, che per distinguere il lecito dall’illecito, occorrerà accertare, attraverso una puntuale interpretazione dell’articolo, se il giornalista abbia assunto la prospettiva del terzo osservatore dei fatti, agendo per conto dei suoi lettori, ovvero sia solo un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria, essendo evidente che in questo ultimo caso dovrà trovare applicazione la normativa sul concorso delle persone nel reato di cui all’art. 110 cod. pen..
Il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella narrazione di fatti, ma si esprime in un giudizio, o, più genericamente, in una opinione, la quale, come tale, non può che essere fondata su un'interpretazione dei fatti e dei comportamenti e quindi non può che essere soggettiva, cioè corrispondere al punto di vista di chi la manifesta.
Peraltro, il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella narrazione di fatti, ma “si esprime mediante un giudizio o un'opinione, che, come tale, non può essere rigorosamente obiettiva. Nondimeno non può ritenersi che la critica sia sempre vietata pur se idonea ad offendere la reputazione individuale, richiedendosi, invece, un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero”. (Cassazione civile 13 giugno 2006, n. 13646).
In tema di diritto di cronaca e di critica, i termini adottati ed il taglio dato ad un articolo di giornale costituiscono emanazione della cultura, sensibilità ed esperienza del giornalista ed implicano un livello di partecipazione personale, più o meno elevato, che necessariamente fa degradare l'obiettività assoluta dell'informazione a canone tendenziale. E' però questo il contenuto del diritto di critica, cioè il diritto del cronista di esprimere la propria visione della vita e della società.
Pertanto, la Suprema Corte penale con sentenza n. 7662 del 23 febbraio 2007 ha stabilito che “deve quindi ben distinguersi la cronaca dalla critica, riconoscendo che con quest'ultima si manifesta la propria opinione, che non può pertanto pretendersi assolutamente obiettiva e che può essere esternata anche con l'uso di un linguaggio colorito e pungente”.
Ciò che va specificato è che, mentre il giudizio critico su un fatto è necessariamente soggettivo e quindi, come tale può essere condiviso o meno, il fatto - presupposto ed oggetto della critica - deve corrispondere alla verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive, come nell'esercizio del diritto di cronaca. (Cassazione civile n. 15270/2006).
Ciò che distingue la critica dall’invettiva è il fatto che la prima è argomentata, la seconda è gratuita. Per ritenersi validamente argomentato, un giudizio critico deve essere corredato da una spiegazione che renda manifesta al destinatario del messaggio la ragione della censura. Come è ovvio, non è necessario che il destinatario condivida l’iter argomentativo e/o le conclusioni del criticante, essendo “sufficiente che l’uno e le altre presentino un carattere minimo di logicità e non contrastino col senso comune”. (Cassazione penale n. 11662 del 20 marzo 2007).
La politica, tollera un linguaggio scorretto per effetto di una riconosciuta desensibilizzazione della potenzialità offensiva (di alcune pesanti espressioni, epiteti, insulti) entrata ormai a pieno titolo nel nuovo costume.
La critica politica nei confronti di un soggetto che rivesta una funzione pubblica può essere adottata come causa di giustificazione solo quando esprima un dissenso politicamente apprezzabile rispetto al comportamento o anche alle estrinsecazioni verbali del personaggio criticato, mentre non deve mai risolversi nell’immotivato attacco alla persona con epiteti offensivi.
Peraltro, la valenza penale delle espressioni astrattamente offensive va apprezzata nel caso concreto. Infatti, per giurisprudenza consolidata, in tema di tutela penale dell'onore, al fine di apprezzare l'eventuale rilevanza penale delle espressioni obiettivamente lesive dell'altrui onore o decoro, occorre "contestualizzarle", ossia valutarle in rapporto al contesto spazio-temporale nel quale sono state profferite. Per l’effetto, anche espressioni obiettivamente ingiuriose o diffamatorie potrebbero essere non punibili se scriminate dal contesto in cui sono state rese.
Un ormai ampio orientamento giurisprudenziale ritiene che, allorquando il destinatario sia un uomo politico e il fatto si iscriva nell’ambito di una polemica politica, dilata significativamente la valenza scriminante del diritto di critica, pur in presenza di espressioni, toni, affermazioni oggettivamente offensivi, che quindi - normalmente - sarebbero idonei ad integrare gli estremi dell’ingiuria o della diffamazione. Infatti, pur in presenza di espressioni astrattamente offensive, è possibile applicare la scriminante del diritto di critica allorché si tratti di espressioni costituenti la manifestazione di una critica politica, di guisa che il loro significato finisce con il trascendere l’ambito individuale o la sfera personale delle persone offese, esprimendo piuttosto una valutazione prettamente politica.
Vi è poi da aggiungere che il diritto di critica non compete al solo giornalista ma correttamente esercitato spetta a tutti, costituendo uno dei fondamenti della vita di relazione in un corpo sociale ordinato secondo i principi della democrazia e del liberalismo ed è assolutamente necessario per la esistenza dello Stato di diritto.(Cassazione penale del 2005, n. 5103).
Anche il diritto di critica è, come quello di cronaca, condizionato all'osservanza del limite della continenza, che viene in considerazione non solo sotto l'aspetto della correttezza formale dell'esposizione, ma anche sotto il profilo sostanziale consistente nel non eccedere i limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse. (Cassazione civile n. 15270/2006).
La giurisprudenza ha così ritenuto cheper stabilire se l’esercizio del diritto di critica nei confronti di un uomo politico abbia rispettato il limite della continenza verbale, il giudice di merito deve tenere conto dei seguenti parametri: a) le singole parole non possono essere estrapolate dal contesto, ma vanno valutate in una con esso; b) l’estensione del diritto di critica è tanto maggiore, quanto più elevate siano le funzioni pubbliche ricoperte dalla persona criticata; c) la natura offensiva delle singole espressioni usate va sempre comparata con l’indignazione suscitata dalla condotta della persona criticata; d) la natura diffamatoria delle affermazioni deve escludersi quando esse siano manifestazione non di malanimo personale, ma di polemica politica. Sulla base di tale motivazione, la Suprema corte ha cassato la sentenza di condanna di un imputato il quale aveva proferito all’indirizzo dell’allora presidente del Consiglio dei ministri l’espressione “Fatti processare, buffone! Rispetta la legge, rispetta la democrazia o farai la fine di Ceausescu e di don Rodrigo”.(Cassazione pen. 07 giugno 2006, n. 19509)
Non diffama, il giornalista che critica l’esibizione di fatti privati in TV da parte di un personaggio pubblico. Non solo, il principio vale anche per le persone comuni che decidono di offrire al “consumo televisivo” la parte più intima della loro vita privata. Tale principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 30879 /2005 che ha proprio sancito che “Se è pur vero che l'esercizio del diritto di critica non può spingersi sino a ledere l'onore e il decoro delle persone, aggredendone i diritti della sfera personale, è altresì vero che colui il quale decide di esporre le proprie vicende personali in una trasmissione televisiva le rende per ciò solo pubbliche, e deve pertanto accettare che esse possano formare oggetto di critica da parte di terzi. Ne consegue che costituisce legittimo esercizio del diritto di critica censurare, anche in modo sarcastico o polemico, una trasmissione televisiva e le dichiarazioni rese da chi vi ha partecipato, fermo restando il limite della continenza verbale”.
In definitiva, elementi di valutazione nuovi fanno pendere l’ago della bilancia dalla parte della libertà di critica. Valutare una trasmissione televisiva comporta sempre l’espressione di giudizi relativi allo stile della esibizione e dei suoi protagonisti, al buon gusto e all’efficacia comunicativa del programma. Chi decide di affacciarsi sulla piazza mediatica con modalità tali da offrire alla fruizione del pubblico anche episodi della propria vita privata diventa per questo un personaggio e deve accettare che la critica investa anche quei fatti della sua sfera personale che ha deciso di rendere noti.
Di conseguenza, il giornalista che esprime le sue considerazioni sulla personalità, ma anche sullo spessore morale della persona che si è offerta al consumo televisivo, non commette alcuna lesione della reputazione altrui.
La giurisprudenza ha più volte ribadito che “costituisce legittima espressione del diritto di cronaca, quale esimente della responsabilità civile per danni, la pubblicazione di un'interrogazione parlamentare dal contenuto oggettivamente diffamatorio, sempre che (e solo che) corrisponda al vero la riproduzione (integrale o per riassunto) del testo dell'interrogazione medesima, essendo priva di rilievo, per converso, l'eventuale falsità del suo contenuto, che il giornalista non ha il dovere di verificare, pur avendo l'obbligo di riprodurlo in forma impersonale ed oggettiva, quale semplice testimone, senza dimostrare, cioè, con commenti o altro, di aderire comunque al suo contenuto diffamatorio ed abbandonare, così, la necessaria posizione di narratore asettico ed imparziale del fatto interrogazione”. (Cassazione n. 15270/2006)
Può verificarsi che il contenuto di un’interrogazione parlamentare faccia chiaro riferimento ad un soggetto, indicando elementi precisi per la sua individuazione da parte degli esperti del settore, senza tuttavia nominarlo.
In questa ipotesi, la Corte ha poi precisato che “non snatura il diritto di cronaca l'attività del giornalista che esplicita tale nominativo, ma, in relazione a questo plus rispetto all'interrogazione, deve accertare la corrispondenza degli elementi soggettivi forniti nell'interrogazione ed il soggetto da lui individuato”. In altri termini il giornalista ancora una volta non risponde della verità dei fatti indicati nell'interrogazione parlamentare, ma ne risponde nei soli limiti in cui egli ha ritenuto che i fatti indicati nell'interrogazione si riferissero ad un determinato soggetto, non esplicitato nell'interrogazione, se, invece, l'interrogazione non si riferiva a quel soggetto. Si rimane, quindi, sempre nell'ambito del legittimo esercizio del diritto di cronaca giornalistica se l'articolo relativo ad un'interrogazione parlamentare chiarifica anche al lettore medio, quello che già risulta chiaro agli esperti del settore relativamente al contenuto di tale interrogazione.
La giurisprudenza ha formulato la definizione del concetto di satira, stabilendo che “è quella manifestazione del pensiero (talora di altissimo livello) che nei tempi si è addossata il compito di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene”. (Cassazione penale 24 febbraio 2006, n. 9246).
“La Satira è lecita se funzionale alla manifestazione di un dissenso ragionato”, così come espressamente statuito dalla Cassazione Civile con sentenza n. 10656 del 24 aprile 2008. La Corte ha ritenuto che la satira costituisce una modalità corrosiva e spesso impietosa di esercizio del diritto di critica e può realizzarsi anche mediante l’immagine artistica come accade per la vignetta o per la caricatura, consistenti nella consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali delle persone ritratte. Diversamente dalla cronaca, la satira è sottratta al parametro della verità in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su un fatto ma rimane assoggettata al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito. Conseguentemente, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvono in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato.
L’esercizio del diritto di satira è pur sempre soggetto al limite della continenza verbale e della funzionalità delle espressioni adottate rispetto allo scopo di denuncia sociale che l’autore della satira intende perseguire. “Ne consegue che non può ritenersi legittima espressione del diritto di satira la ridicolizzazione dell’aspetto fisico di una persona, compiuta in termini aggressivi e senza alcuna connessione con la finalità dello scritto”.(Cassazione penale n. 9246/2006).