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Il lavoro a progetto: finta collaborazione, vera schiavitù (di Carla Traversi)

20/12/05



No, no si tratta di uno sbaglio. E’ proprio il lavoro a progetto “a tempo indeterminato”. Perché? Perché è quello che succede, normalmente. Ed è la differenza sostanziale che intercorre tra le buone intenzioni dei legislatori e la pessima applicazione da parte degli imprenditori/editori.

Nella mia esperienza professionale (ad oggi sono trascorsi 7 anni dal primo giorno di lavoro) ho provato (quasi) tutte le condizioni lavorative. Ecco a voi un mio “particolare” Curriculum Vitae.

NEOLAUREATA: STAGE E SFRUTTAMENTO

Appena laureata trovo lavoro in una casa editrice specializzata. La casa editrice non è registrata presso alcun Tribunale. Il Direttore responsabile non è nemmeno giornalista pubblicista, figuriamoci professionista. Anche i caporedattori sono quasi tutti dei non-giornalisti. Le riviste sono a tiratura nazionale ma il fatto che lì dentro sia tutto terribilmente irregolare sembra essere sfuggito al mondo intero (sindacati inclusi).

Faccio la stagista sfruttata a ZERO lire (a quel tempo c’erano ancora le lire!). Sono quotidianamente perseguitata dalle caporedattrici più anziane che, invece di ribellarsi ai soprusi del direttore/editore, piene di viltà e paura, mi guardano con sospetto e si vendicano su di me riversandomi addosso tutte le loro frustrazioni professionali.

Risultato: faccio una rivista quasi da sola (non potendo firmare alcun articolo), non godo di alcun diritto e – manco a dirlo – non ho alcun guadagno. Non mi vengono rimborsati nemmeno il pranzo e i biglietti del tram. Pazienza. E’ la gavetta.

Bilancio del periodo di prova: tutto quello che ho imparato l’ho appreso, in concreto, da sola. Ma, per mia disgrazia, sono piuttosto brava: e così il direttore mi propone un “favoloso co.co.co.”. La mia condanna è segnata.

1° LAVORO – CO.CO.CO.CO.CO.CO.CO.CO.CO.CO.CO.CO ……..

Nemmeno questo è uno sbaglio. E non è nemmeno una crisi di balbuzie. E’ che, durante l’arco di circa un anno e mezzo, il co.co.co. bimestrale “capestro” con pagamento a 60 giorni (= fedeltà coatta) mi viene rinnovato per 8 o 9 volte di seguito. Illegale? Certo! Tanto chi controlla? E poi “se non mi sta bene posso anche andarmene: tanto, dietro la porta, c’è la fila”.

Da voci di corridoio apprendo (la redazione è piccola e la gente mormora) che il direttore/editore è pieno di cause intentate dagli ex-collaboratori; cause che finiscono sempre in un nulla di fatto giacché gli stessi redattori testimoniano il falso contro gli ex-colleghi, pur di mantenere il loro sederone ben incollato alla sedia.

Nel frattempo le cattiverie dei contrattualizzati impoltronati (e impoltroniti) si fanno sempre più pesanti (invidia? paura?) fino a quando, a causa del mobbing selvaggio, decido di mollare il colpo. E’ il mio medico che mi obbliga, di fatto, a cercare un altro lavoro. Insomma, mi dimetto per un’ulcera intestinale provocata dalla tensione continua.

2° LAVORO CO.CO.CO. (BUONA LA PRIMA!)

Fortunatamente riesco a cambiare lavoro. E’ il boom di internet ed entro in una grossa agenzia. Che contratto firmo? Il solito co.co.co annuale. Ma il lavoro è stimolante e i colleghi sono tutti - incredibile ma vero! - gentili e simpatici. Mi sembra di avere vinto alla lotteria.

3° LAVORO: IL TEMPO DETERMINATO DEL TEMPO INDETERMINATO

L’agenzia viene comprata da un grosso gruppo e tutti i dipendenti vengono “regolarizzati”. Ho una busta paga regolare, una tredicesima e una quattordicesima, i permessi, le ferie, la malattia, il tfr, insomma tutto. Evviva! Il mio capo è un giornalista professionista, una persona generosa e (finalmente) competente. E’ lui che, di fatto, si prende la briga di insegnarmi davvero qualcosa. Ed è sempre lui che mi permette di accedere alla professione. Una delle poche persone, tra quelle incontrate sul mio cammino, al quale sento di dover dire “grazie”.

L’INCUBO: LA DISOCCUPAZIONE

Tre anni dopo: lo sboom, la crisi, i licenziamenti. Cambiano gli equilibri. L’agenzia decide di mandare a casa lo staff e, tra offerte e minacce, tutti (me compresa) veniamo “fatti dimettere”.

Ai confini della realtà: le collaborazioni occasionali

E’ evidente che devo scontare qualche debito karmico, perché improvvisamente precipito nel girone delle collaborazioni occasionali. Provo tutti gli svantaggi della libera professione: committenti che pagano quando vogliono (ammesso e non concesso che paghino, e solo in seguito a svariate raccomandate) nel più completo disprezzo della legge vigente; gente che promette e, puntualmente, non mantiene; pseudo-imprenditori-editori degni del Circo Orfei che mi convocano proponendomi lavori mal pagati da finire sempre “per il giorno prima”.

Tutte le volte che provo a contestare qualcosa mi viene risposto che devo stare buona e zitta perché “tanto fuori c’è la fila”. Nella mia mente si materializza una visione: orde di giornalisti extracomunitari a bordo di bagnarole guidate da scafisti che, come tanti pacchi di materiale umano vengono catapultati nelle redazioni di tutta Italia …

Tra le esperienze peggiori spicca una “finta collaborazione = vera schiavitù” che coraggiosamente decido di denunciare. (La storia meriterebbe un capitolo a parte nel Diario di Piero.)

La squallida situazione perlomeno ha un lato positivo: mi fa conoscere Simona Fossati e il Gruppo di Senza Bavaglio. Ovviamente, pagherò caro il mio gesto: perderò la collaborazione.

2005: il progetto di un lavoro a progetto

E veniamo allo stato attuale delle cose.

Primo quesito. Ho un lavoro?

Sì.

Secondo quesito. Che tipo di lavoro?

Un lavoro a progetto.

Terzo quesito.

Sono soddisfatta ?

Non molto…

Perché?

Perché il lavoro a progetto è un vero e proprio lavoro subordinato mascherato.

E’ il vecchio co.co.co. che ha cambiato il pelo ma non il vizio.

Perché sul contratto è scritto che “non ho orari” (io sarei una lavoratrice autonoma? Ah, che ridere …..) ma, di fatto, sono tenuta a rispettare le otto ore giornaliere. Ho una postazione fissa, ho un badge da timbrare, con tutta una cornice di nostalgiche abitudini. Diciamo che ho tutti gli svantaggi del lavoro dipendente (orari, routine, gerarchia, etc.) e tutti gli svantaggi del lavoro libero (precarietà, preoccupazione per il futuro, impossibilità di fare piani a lungo termine, mancanza di ammortizzatori sociali).

Se sgarro, devo recuperare.

Se devo fare una visita medica, quelle ore perse le devo recuperare.

Se devo fare qualcosa di diverso (andare in banca, fare una commissione), devo ottenere la concessione dal mio capo. E il mio capo è una persona (fortunatamente) civile e ragionevole. E’ uno di sinistra. E’ uno che ha a cuore i diritti dei lavoratori.

Se sto a casa in malattia (e non potrei), devo recuperare, in caso contrario la giornata non mi viene pagata.

Non posso permettermi di ammalarmi. Ovvero: sono liberissima di farlo, ma solo durante le ferie (non pagate) e nei week end.

A questo proposito ricordo un esilarante colloquio con un imprenditore che mi aveva chiamato per sostituire una sua collaboratrice a progetto di alto profilo. Costei era, a suo dire, persona preparata e affidabile. “Perché cercate qualcun altro allora?” chiesi. Mi fu risposto “La poverina si è ammalata. Gravemente. Un tumore. Mica possiamo tenerci sul gobbo una in quelle condizioni”.

Ecco cos’è veramente il lavoro flessibile.

Gli straordinari? Se capita, sono dovuti (e quindi non pagati).

Le ferie? Certamente, le posso fare. Ma non sono pagate.

Figuriamoci poi se, in quanto donna (e ancora in età fertile), potrò mai permettermi di avere un figlio! Di fatto sono stata “flessibilmente” sterilizzata.

In altre parole: potrei decidere di avere anche un figlio, ma so che, automaticamente, perderei il lavoro. L’unica speranza che ho per riprodurmi è quella di fare la mantenuta. (ah, ah!) ☺

Un solo “privilegio” contrattuale sono riuscita a strappare: il part-time verticale.

Vale a dire non lavoro tutti i giorni della settimana. Mi è stato proposto ma, a costo di guadagnare meno, mi sono impuntata e ho rifiutato.

Perché?

Perché è una questione di principio.

Se un datore di lavoro vuole tutto il mio tempo (e quindi vuole l’esclusiva) mi deve assumere. E per assunzione intendo un contratto a tempo indeterminato, oppure anche determinato, ma con tutti crismi.

Altrimenti, visto che il rischio di rimanere a terra da un momento all’altro c’è, mi spiace, ma sono costretta a tenere altre porte aperte. Flessibile sì, ma mica scema!

E il contratto a progetto mi verrà rinnovato? Certo, anche se secondo la legge non potrebbe avere proroghe, pena la trasformazione del contratto in lavoro subordinato e a tempo indeterminato. E io sono fortunata. Perché ho un contratto su base annuale. C’è chi va avanti con contratti bimestrali, se non addirittura mensili. Una vita da zombi.

Che dire poi delle fantasiose clausole contrattuali?

Ad esempio, esaminiamo il patto di non-concorrenza.

Cioè: il fatto di non poter lavorare per soggetti che operano nello stesso settore. Ma se io faccio un certo tipo di professione, mica posso – nel tempo restante - riparare biciclette! E’ ovvio che lavorerò anche per la concorrenza! E’ un mio diritto!

Altra clausola: l’azienda può interrompere da un momento all’altro la collaborazione, ma se lo faccio io (in caso di altra proposta di lavoro) devo dare un preavviso. Di trenta, alle volte anche di sessanta giorni, pena una sanzione monetaria piuttosto salata.

Ma come?

Il contratto flessibile non doveva dare slancio alla libera concorrenza? Non nasceva sul principio del lavoro autonomo e quindi della possibilità di avere più contratti a progetto (più collaborazioni) in contemporanea? Che storia è questa?

E i controlli? Vengono attuati?

No.

L'unica prova è l'esistenza di un progetto, senza però poter sindacare in merito a scelte che spettano unicamente al datore di lavoro. Di conseguenza, è legittimo dedurre che sarà l'azienda a decidere a suo proprio ed esclusivo vantaggio.

In parole povere significa questo.

Mettiamo il caso che il contratto venga stipulato su base annuale: nel primo anno il progetto avrà come finalità “Pippo”; nel secondo “Paperino”; nel terzo “Pluto”; nel quarto “Eta Beta” ……e così via …… una serie continua di pretesi “progetti”, formalmente “a termine”.

E’ il rebus del contratto a progetto a tempo indeterminato.

“Finché una malattia, un figlio o la rottura del contratto non vi separi.”

Di fatto, includere la durata determinata o determinabile per la realizzazione del progetto o di una fase di esso, ci riporta alla beffa del mancato contratto a tempo determinato.

Ma il governo è davvero convinto che le imprese provvederanno disciplinatamente ad assumere il lavoratore con contratto di lavoro subordinato accollandosene il costo?

Perché dovrebbero pagare per una merce che possono avere a basso costo (lavoratori flessibili disperati) se non addirittura gratis (stagisti)?

E se non volessero o non potessero farlo, che cosa ne sarà delle centinaia di migliaia di posti di lavoro che in questo modo vengono messi fuori legge?

Quando si parla di aumento dei posti di lavoro si tiene conto della “qualità” del lavoro? Si conteggiano i contratti scaduti, quelli rinnovati “falsamente” più e più volte (pur trattandosi della stessa minestra, condita diversamente), i lavori riconvertiti - sotto ricatto (di licenziamento) - da indeterminati a flessibili?

E così arriviamo a mettere finalmente il dito nella piaga di un sistema produttivo fortemente “duale”, dove il diritto del lavoro in tutta la sua iper tutelata rigidità si applica a meno di 10 milioni di lavoratori, dei quali circa 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici (e scusatemi se m’incazzo quando leggo – sul giornale, eh - che “i professori di scuola, poverini, sono gli statali meno pagati” - chissà gli altri…. - con la bellezza di 1500 euro mensili per mezza giornata di lavoro e due mesi e mezzo di ferie all’anno). Mentre tutti i lavori più ingrati, più precari, collocati negli orari più scomodi e peggio retribuiti, sono svolti da 3 milioni di dipendenti di micro aziendine (allo sbaraglio senza sindacato), da 2 milioni di co.co.co./a progetto e da 2 o 3 milioni di irregolari (di fatto, senza alcuna tutela, stile “cinesi” nei capannoni della Brianza).

I sindacati hanno sempre protestato a parole, nei grandi proclami demagogici di piazza; situazione che però ha sempre fatto gran comodo ai loro iscritti, quasi tutti ormai appartenenti alle principali specie protette dal WWF: gli operai tipo Cipputi e gli assunti a tempo indeterminato delle aziende medio-grandi.

Perché ai lavoratori subordinati regolari, ai redattori regolarmente assunti, a ben vedere, fa comodo che i lavoratori a progetto e i co.co.co. portino la maggior parte del peso della flessibilità di cui l'impresa ha bisogno: senza questo polmone di lavoro agile e a basso costo il malfermo equilibrio del carrozzone ministerial-aziendale mostrerebbe tutta la sua vergognosa fragilità.

Perchè se davvero si dovessero aprire improvvisamente le porte del lavoro regolare a tutti i “flessibili” l'impresa presenterebbe il conto anche ai regolari. Che non intendono certo rimetterci per i loro colleghi freelance “sfigati”.

In conclusione è cambiato tutto per restare esattamente come era.

Il contratto a progetto, camuffa bellamente il vecchio rapporto di lavoro subordinato, con gravi conseguenze sul piano della dignità umana ancor prima che professionale.

Carla Traversi



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